Categories: Editoriale

Rosario Livatino: simbolo di intelligenza, operosità e incorruttibilità

«Livatino è un esempio non soltanto per i magistrati, ma per tutti coloro che operano nel campo del diritto: per la coerenza tra la sua fede e il suo impegno di lavoro, e per l’attualità delle sue riflessioni».

A poco più di un anno dalla sua beatificazione, Rosario Livatino resta solido punto di riferimento: non un santino incastonato in una scintillante aureola, ma testimone di valori incarnati e sempre palpitanti come il sangue vivo. Le parole di Papa Francesco ne sono la conferma. Anche in questi mesi passati, ma ancora oggi in cui, ad esempio, si discute, anche per motivi elettorali, di riforma della giustizia, la figura – e soprattutto l’insegnamento – del magistrato siciliano restano validi ed attuali, per quanto (almeno in parte) ignorati. La riscrittura delle regole, pure importante, pare infatti insufficiente senza un solido radicamento nelle idee e nei principi come quelli cui Livatino dava concretezza, forgiando con la forza dell’impegno quotidiano un’affermazione che riporta alla necessità – ineludibile – di orientarsi all’etica ed alla moralità, proprie prima che altrui.

Il rigore che egli seguiva nel lavoro, come nella vita privata, trovava fonte nella spiritualità della fede, al punto da concepire la giustizia – e l’esercizio di essa – come un modo per ristabilire l’ordine delle cose della vita, deturpato dal male.

Livatino, in effetti, era un cristiano fervente. E la sua non era una scelta intima. Al contrario, si manifestò come adesione piena al Vangelo che, sebbene non urlata (e forse per questo anzi ancor più significativa), permeava di sé anche la sua concezione di giustizia e la sua quotidianità di impegno professionale. Già sull’agenda di lavoro, del resto, campeggiava in prima pagina la sigla STD, sub tutela dei, utilizzata in epoca medievale come invocazione perché Dio aiutasse chi era chiamato a compiere un dovere pubblico.

Ma la sua attenzione – pure da giudice – ai principi evangelici, non mancava di specifica trattazione, anche pubblica. Emblematici, sul punto, i suoi interventi sui temi della fede e del diritto. A parlare, in ogni occasione, è un magistrato, che riflette su di sé e sulla propria professione e, in particolare sulla propria terzietà e indipendenza. «In questa società in continua evoluzione – argomentava – il magistrato è colui al quale, piaccia o no, è affidato lo specialissimo compito di applicare le leggi in piena, totale indipendenza da ogni centro di potere, politico e mafioso». Ancora: «L’indipendenza del giudice non è solo nella propria coscienza, nella libertà morale e nella fedeltà ai principi, ma anche nella trasparenza della sua condotta, anche fuori del suo ufficio, nella libertà e nella normalità delle sue relazioni, nella sua indisponibilità a iniziative e affari, nella scelta dell’amicizia».

Inoltre: «Il giudice deve offrire di se stesso l’immagine di una persona seria, equilibrata, responsabile, l’immagine di uno capace di condannare, ma anche di capire; solo così egli potrà essere accettato dalla società. Questo e solo questo è il giudice di ogni tempo; se apparirà sempre libero e indipendente, si mostrerà degno della sua funzione; se si manterrà integro e imparziale non tradirà mai il suo mandato”.

E da ultimo, ma certo non ultimo: «Entrambi, il giudice credente e non credente, devono, nel momento del decidere, dimettere ogni vanità e soprattutto ogni superbia; devono avvertire tutto il peso del potere affidato alle loro mani, peso tanto più grande perché il potere è esercitato in libertà ed autonomia. E tale compito sarà tanto più lieve quanto più il magistrato avvertirà con umiltà le proprie debolezze, quanto più si ripresenterà ogni volta alla società – che una somma così paurosamente grande di poteri gli affida – disposto e proteso a comprendere l’uomo che ha di fronte e a giudicarlo senza atteggiamento da superuomo, ma anzi con costruttiva contrizione».

Per questo suo essere simbolo di intelligenza, operosità e incorruttibilità, gli stiddari, non senza l’avallo di Cosa nostra, ne decretarono l’eliminazione fisica. Ma quel 21 Settembre del 1990 le armi che vomitarono morte ai piedi del viadotto Gasena non uccisero solo un uomo, e neppure soltanto un giudice. Uccisero un giudice cristiano, fino in fondo testimone della sua fede cristiana. Un martire di giustizia, che oggi parla ancora al mondo della giustizia, dai giudici agli inquirenti ai funzionari, con parole ed esempi più forti di ogni riforma, e senza i quali nessuna riforma potrà mai dirsi veramente tale.

Mons. Vincenzo Bertolone: