Editoriale

La risposta dell’Italia alle dipendenze patologiche

Quattro studenti su dieci riferiscono di aver consumato droga almeno una volta nella vita. Si tratta di quasi un milione di ragazzi tra i 15 e i 19 anni. Questo il dato più rilevante dell’ultima relazione annuale al Parlamento sul fenomeno delle tossicodipendenze in Italia presentata ieri dal Governo in occasione della Giornata mondiale contro le droghe che si celebra oggi. Sono molte le sostanze che i giovani riferiscono di aver usato almeno una volta – cocaina, stimolanti, allucinogeni, nuove sostanze psicoattive – ma la cannabis rimane quella più usata. Inoltre si registra sia l’abbassamento dell’età del primo approccio agli stupefacenti sia la scarsa consapevolezza dei rischi che corrono i ragazzini sull’uso di droghe. Assieme all’aumento dei consumi, si è osservato un aumento dei minorenni denunciati all’Autorità Giudiziaria per reati penali droga-correlati. Infine un allarme è stato lanciato sull’utilizzo di smart drug e psicofarmaci presi senza prescrizione. Si tratta delle cosiddette nuove sostanze psicoattive che rappresentano una delle maggiori sfide nel campo delle dipendenze: essendo composti sintetici facilmente manipolabili, risultano difficili da rilevare e, non essendo immediatamente classificati nelle liste delle sostanze vietate dalla legge, sfuggono spesso ai controlli.

L’Italia è stata un’eccellenza mondiale nel trattamento delle dipendenze patologiche. All’estero il problema droga è stato sempre affrontato da un un punto di vista sanitario: all’uso di sostanze stupefacenti si risponde con farmaci. Invece in Italia la risposta è stata la comunità terapeutica. Perché? In una comunità il problema droga si affronta con la relazione. In una comunità una persona non viene semplicemente curata con i farmaci come in un ospedale, ma fa un’esperienza di vita: deve guardarsi dentro, prendere coscienza della propria storia e dei propri problemi, capire quali sono state le cause che lo hanno portato a rifugiarsi nelle sostanze.

Le comunità terapeutiche nacquero in Italia alla fine degli anni ’70: nel 1978 San Patrignano di Muccioli, nel 1980 il Progetto uomo di don Picchi, le comunità di don Benzi e via via tante altre comunità che sono nate lungo la penisola, ognuna con un suo specifico metodo di intervento, ma tutte accomunate dalla centralità della relazione per la cura della dipendenza. Al centro di questa relazione vi è la persona come soggetto attivo del proprio cambiamento. Si tratta di una visione opposta rispetto a quanto avviene all’estero dove prevale l’aspetto medico e l’uso dei farmaci per la riduzione del danno.

Oggi questa esperienza corre due rischi. Il primo è la presenza nelle comunità di persone che, dopo anni di dipendenza durante i quali hanno devastato la loro vita sociale e relazionale, hanno sviluppato forme di psico-patologie che non si possono più recuperare. Il secondo è l’accettazione da parte della collettività del fenomeno dipendenza. C’è una sempre maggiore spinta culturale che tende a differenziare l’uso ricreativo delle sostanze e l’utilizzo non problematico da una parte dall’uso problematico e la dipendenza strutturata dall’altra. Concentrarsi solo sul dibattito sulla depenalizzazione dell’uso e del possesso di droghe sarebbe riduttivo. Sebbene in Italia le leggi non siano cambiate, tuttavia si rischia di andare sempre più verso un approccio di riduzione del danno in cui non si parla di tossicodipendenti – termine definito “giudicante”- ma di consumatori.

La riduzione del danno si attua in programmi che mirano a minimizzare gli impatti negativi dell’uso di droghe sulla salute delle persone e sulla società. Alcuni attività riguardano la fornitura di informazioni su come assumere droghe in modo sicuro, la predisposizione di stanze del consumo supervisionato, programmi di distribuzione di aghi e siringhe, prevenzione di overdose, terapia sostitutiva solo per citarne alcuni. Si tratta di un approccio che sostiene di voler tutelare la salute e promuovere la non discriminazione delle persone che fanno uso di sostanze. L’obiettivo non è liberare una persona dalla dipendenza ma fare in modo che possa convivere con la droga continuando una vita abbastanza normale. Sebbene alcune azioni possano anche essere utilizzate in alcune situazioni, tuttavia il rischio è quello di impedire il massimo sviluppo di una persona.

Lo spiegava bene don Oreste Benzi. “I danni delle droghe sono anzitutto sulla persona. I danni fisici sono ben poca cosa rispetto a quelli morali. Chi fa uso di queste sostanze cessa di crescere nella sua personalità. Smette di affrontare la vita. Fugge di fronte ad ogni difficoltà, rifugiandosi nel “paradiso” artificiale. Spegne i suoi sentimenti. Infiacchisce la sua volontà. S’incapsula in sé stesso. Infine, diventa incapace di mettersi in relazione“.

Luca Luccitelli

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