A ottobre, dopo le elezioni politiche del 25 settembre, quelle che si riuniranno saranno due Camere inedite, decisamente snellite. La legge Costituzionale prevede la riduzione del numero dei parlamentari, da 630 a 400 deputati e da 315 a 200 senatori elettivi. L’obiettivo è duplice: da un lato favorire un miglioramento del processo decisionale delle Camere per renderle più capaci di rispondere alle esigenze dei cittadini, dall’altro ridurre il costo della politica (con un risparmio stimato di circa 500 milioni di euro in una Legislatura). La riforma consentirà all’Italia di allinearsi al resto d’Europa: l’Italia è il Paese con il numero più alto di parlamentari direttamente eletti dal popolo (945); seguono la Germania (circa 700), la Gran Bretagna (650) e la Francia (poco meno di 600). Tra le altre cose, l’Aula di Palazzo Madama ridurrà il numero delle Commissioni permanenti da 14 a 10 accorpandone alcune: Esteri e Difesa, Ambiente e Lavori Pubblici, Industria e Agricoltura, Lavoro e Sanità. Sin qui gli aspetti tecnici della mini rivoluzione.
Poi, però, ci sono gli aspetti pratici, strettamente legati ai giochi della politica. Perché se gli effetti evidenti della sforbiciata saranno quelli di risolvere gli atavici problemi di spazi di lavoro per i parlamentari e i gruppi, ci si interroga sulla funzionalità degli organismi, specie per il Senato. L’Aula di Palazzo Madama riduce il numero delle Commissioni permanenti da 14 a 10 accorpandone alcune (Esteri e Difesa, Ambiente e Lavori Pubblici, Industria e Agricoltura, Lavoro e Sanità). E gruppi medio-piccoli avranno uno o due senatori in ciascuna commissione, il che impedirà una loro specializzazione e imporrà un maggior ricorso ai tecnici esterni e ai legislativi dei ministeri.
L’altro problema riguarda le Commissioni e gli Organi Bicamerali, come Copasir, Vigilanza Rai, Antimafia. Queste, per fare un esempio, dovranno evitare di riunirsi nel primo pomeriggio (quando non ci sono i lavori delle due Aule) in concomitanza con le Commissioni permanenti di Camera e Senato, pena il rischio di far mancare il numero legale nelle une o nelle altre. Per le Bicamerali in arrivo convocazioni all’alba o al tramonto, dunque. Tutti passaggi che saranno resi indispensabili dal nuovo assetto parlamentare deciso dalla politica. E che forse porterà con sé l’esigenza di altre riforme portanti come quella in chiave presidenziale invocata da Fratelli d’Italia o quella sulle autonomie perorata dalla Lega.
Sullo sfondo resta il dibattito per una nuova legge elettorale che possa dare stabilità di governo alle coalizioni vincenti. Un problema sentito da tutti gli schieramenti, tanto da far dire al governatore della Liguria, Giovanni Toti, di fronte al parterre di Comunione e liberazione che l’attuale legge sembra più una perversione che uno strumento di applicazione del consenso. E il Pd spiega nel suo programma che è fondamentale rendere più forte, partecipato e trasparente il sistema politico italiano. Per questo motivo “la pessima legge elettorale con la quale andiamo a votare deve essere cambiata, perché le liste bloccate sviliscono il ruolo del parlamentare, ne condizionano i comportamenti”. Da qui la proposta di nuove norme da proporre al Parlamento sin dai primi mesi della prossima legislatura per superare la frammentazione, il trasformismo, per ridurre gli effetti distorsivi sulla rappresentanza legati al taglio dei parlamentari e per favorire la costruzione di forze politiche stabili e dotate di una riconoscibile identità. Perché con questo schema basteranno pochi cambi di casacca per modificare l’assetto della maggioranza, con buona pace della tanto invocata stabilità di governo. Intanto, però, si va alle urne con le vecchie regole.