Che la via dell’Inferno sia lastricata di buone intenzioni è una tesi che ha avuto nella storia ripetute conferme. Le buone intenzioni poste a base dei referendum sulla giustizia ci sono tutte: chi, a 33 anni dall’operatività di un codice di procedura penale che ha trasformato il pubblico ministero in una parte, se pure pubblica, può ragionevolmente contrastare la separazione delle carriere fra P.M. e giudicanti? E chi, a fronte di aberranti privazioni della libertà personale, può affermare che si tratti di errori fisiologici, e non invece di un meccanismo che non funziona? E come non condividere gli obiettivi di rendere la vita meno angosciante per i pubblici amministratori, di ridurre il peso correntizio nel CSM, di coinvolgere maggiormente gli avvocati e l personale ausiliario nell’amministrazione della giustizia?
Purtroppo l’esame dei quesiti e la considerazione di quel che la loro approvazione provocherebbe realmente fa sorgere dubbi nel raffronto fra intenzioni e risultati. Dipende in parte dalla natura dello strumento del referendum, esclusivamente abrogativo: quindi non adeguato ad affrontare questioni complesse, per le quali l’operazione del “togliere”, per quanto chirurgicamente esercitata, non sempre permette di ottenere qualcosa che regga.
Si pensi alla separazione delle carriere. Il quesito per un verso è inutile, perché abroga disposizioni non più operative da anni, per altro verso preclude il passaggio dalla funzione di P.M. a quella di giudice, e viceversa. Peccato però che, a referendum approvato, il concorso di magistratura resterebbe unico, e unico rimarrebbe il CSM: è una evidente contraddizione.
Vi è un referendum oggettivamente inaccettabile: quello sulla custodia cautelare. È noto che le limitazioni della libertà della persona prima della sentenza definitiva sono consentite purché vi siano gravi indizi di colpevolezza e almeno una delle esigenze cautelari previste dal codice di procedura penale. Il quesito non colpisce le esigenze cautelari costituite dal pericolo di inquinamento delle prove e dal rischio di fuga dell’indagato, bensì il pericolo di reiterazione del reato: a referendum approvato, esso permarrebbe per i reati di mafia, di terrorismo, o commessi con armi o altri mezzi di violenza personale, ma resterebbero sguarnite di ogni tipo di misura cautelare condotte come la rapina o l’estorsione, se poste in essere senza armi e senza mezzi di violenza personale, per es. ricorrendo alla “sola” minaccia, o come la cessione di sostanze stupefacenti, anche di rilevante entità, purché non accompagnate dalla partecipazione ad associazioni per delinquere volte al traffico della droga, o come lo stalking. Non si parla solo di carcere, ma di ogni misura cautelare, incluso l’obbligo di firma.
L’arresto in flagranza per queste tipologie di reati sarebbe seguito dalla immediata remissione in libertà dell’arrestato, se nei suoi confronti la sola esigenza cautelare in concreto ipotizzabile fosse il rischio di reiterazione del reato (se, per es., fosse ‘soltanto’ un rapinatore seriale o uno spacciatore professionale); la polizia giudiziaria eviterebbe di catturare l’autore del reato, pur se colto sul fatto, poiché la prospettiva di vederlo liberamente circolare a distanza di poche ore non costituirebbe un incentivo a lavorare con alacrità.
Vi è un quesito che si potrebbe definire “acqua fresca”: quello che riguarda le modalità di presentazione delle candidature per l’elezione dei componenti togati del C.S.M. Per effetto dell’abrogazione, non sarà più necessario accompagnare la candidatura con una lista di presentatori: resta misterioso come questo incida sul sistema correntizio. Se un magistrato appartiene a una corrente, che cosa cambia se si candida con o senza firme a supporto?
Resta il nodo politico: i referendum sono appoggiati da un partito presente con propri ministri nel governo in carica, e nella maggioranza che lo sostiene: da una posizione simile si sarebbero attese proposte di riforme e sostegno del loro iter parlamentare. All’argomento che l’attuale eterogenea maggioranza, diversificata al proprio interno pure sulla giustizia, fa sì che i referendum siano uno sprone per le riforme, è agevole replicare che, quand’anche i quesiti fossero ritenuti ammissibili e approvati, si dovrebbe tornare in Parlamento per i necessari aggiustamenti: perché allora non si è cercato e non si cerca spazio per un costruttivo confronto parlamentare, invece che optare per soluzioni più semplici solo in apparenza?
Alfredo Mantovano, vice presidente Centro Studi Livatino