Sono trascorsi 46 anni dall’elezione di Giovanni Paolo II: dopo otto fumate nere, il 16 ottobre 1978 alle ore 18 e 18, il cardinale polacco Karol Wojtyla diventa il primo papa slavo della storia della Chiesa. Da luminoso testimone del Vangelo sarà proclamato santo da Jorge Mario Bergoglio. «Carolum…» Lassù, sul balcone della basilica di San Pietro, stava accadendo qualcosa di strano o, quantomeno, di incomprensibile. Il cardinale protodiacono, Pericle Felici, aveva cominciato ad annunciare, gaudium magnum, l’elezione del nuovo Papa. Però, dopo aver allungato all’infinito quell’«Emi-nen-tis-si-mum ac Re-ve-ren-dis-si-mum», e detto il nome, soltanto il nome, si era fermato di colpo. Come se avesse perso improvvisamente la voce. Fu un attimo, una frazione infinitesimale di tempo; ma, con la tensione che in piazza saliva spasmodicamente tra la folla, sembrò non finire mai. Interminabile, e carico di mistero.
Prete romano di quelli antichi, Felici era uomo sereno, pacioso, imperturbabile. E tuttavia, in quel momento, venne preso dall’emozione. Una fortissima emozione. Un po’ perché era cosciente d’essere sul punto di dare una notizia shock. Un po’ perché temeva di pronunciare male quel cognome mezzo ostrogoto; prima, aveva fatto anche delle prove, riuscite così così. Ma, più di tutto, era emozionato per il ricordo di quando, neppure due mesi prima, lì, da quel balcone, aveva dato l’annuncio del successore di Paolo VI: Albino Luciani, patriarca di Venezia, e che aveva preso il nome di Giovanni Paolo. Felici era amico di Luciani, lo conosceva bene; e non si era meravigliato più di tanto a vedere come il nuovo Papa avesse conquistato immediatamente il cuore dei cattolici, ma anche l’attenzione del mondo laico, e della più vasta opinione pubblica. Un consenso che aveva dietro più di un motivo, e non semplicemente formale. Già la scelta di quel duplice nome, che era chiaramente non solo un riconoscimento ai suoi due immediati predecessori, gli artefici del Vaticano II; ma anche l’avvio di un processo di pacificazione all’interno della Chiesa dopo il tribolatissimo periodo postconciliare. E poi, il giorno dopo, la decisione – prima volta di un Papa – di parlare ai fedeli, abbandonando il plurale maiestatico, e confidando i suoi sentimenti, i timori che aveva provato all’approssimarsi dell’elezione. E ancora, l’inizio del pontificato con un rito spoglio di orpelli, senza incoronazione, senza trono, senza triregno: sanzionando, anche negli aspetti esteriori, il tramonto definitivo del potere temporale dei papi. Era, senza dubbio, una nuova maniera di esercitare il ministero petrino. Anche perché Giovanni Paolo ne aveva subito accentuato la dimensione pastorale, ricorrendo alla sua grande esperienza di catechista. Erano diventati famosi i suoi dialoghi con i chierichetti alle udienze generali. Ma affrontava anche argomenti alti, richiamando di continuo la «grande disciplina», riproponendo le fondamentali verità cristiane; sempre, comunque, con un linguaggio semplice, comprensibile a tutti, e che veniva dalla sapienza di un cuore caldo. Aveva scandalizzato solo i cattolici parrucconi e i teologi da salotto, il giorno in cui aveva detto che “Dio è madre”, rilanciando così la riflessione sulla misericordia divina, che da tempo era stata lasciata come in un cantone.
Quella indimenticabile serata del 16 ottobre 1978 rimarrà negli annali ecclesiastici come un evento straordinario: dal Conclave era uscito eletto il cardinale Karol Wojtyla, arcivescovo di Cracovia. Il primo Papa non italiano, dopo quattrocentocinquantasei anni. Un Papa che veniva dall’altra parte della “cortina di ferro”. Ed è qui che la storia aveva avuto un soprassalto. Perché, proprio grazie a chi in quel momento sedeva sulla cattedra di Pietro, Solidarność prima aveva resistito alla repressione, e poi era diventato l’apripista del grande cambiamento in senso democratico all’Est. “Il comunismo è morto di comunismo, il moloch ha divorato se stesso”, scriverà Enzo Bettiza. Ma era stata la Polonia – “protetta” dal suo Papa – a dare il colpo del KO al regime marxista, ad accelerarne il tracollo, il definitivo fallimento. Lo aveva riconosciuto anche Michail Gorbaciov, arrivato in Vaticano nel dicembre del 1989: “… tutto ciò che è successo nell’Europa orientale in questi ultimi anni non sarebbe stato possibile senza la presenza di questo Papa, senza il grande ruolo, anche politico, che lui ha saputo giocare sulla scena mondiale”
. Viene quasi naturale porsi una domanda. Ma se invece di un Papa polacco, e dunque un pontefice con quella provenienza, con quella biografia, con quella esperienza, ci fosse stato un Papa arrivato da un altro Paese comunista, ad esempio, diciamo, ungherese, oppure cecoslovacco, o tedesco-orientale, ebbene, la caduta del Muro e il tramonto del marxismo, sarebbero avvenuti in tempi così incredibilmente brevi? E senza contrasti, senza gravi contraccolpi e, soprattutto, senza spargimenti di sangue?