Da qualche anno cresce il numero di politici che si dichiarano liberali, ma ho l’impressione che definirsi appartenenti a questa filosofia politica, sia un modo come un altro, al massimo per distinguersi dalle altre posizioni. Probabilmente la propensione a dichiararsi liberali in un Paese a forti tradizioni rosso-nere, che con i propri cascami hanno generato populismi di destra e di sinistra, possa essere la reazione alle esagerazioni subite nell’ultimo ventennio, generate da queste ingombranti e penalizzanti presenze per l’economia nelle assemblee elettive e nei governi centrali e locali.
Suppongo però che queste dichiarazioni d’amore verso la cultura liberale che ha generato il pensiero moderno della democrazia rappresentativa, dell’etica economica, dello Stato garante dell’equilibrio tra i poteri e delle libertà, nascano da ancoraggi molto deboli quando non semplicemente nominali. Infatti non troviamo in politica né emuli del liberalismo classico di Luigi Einaudi, né del liberalismo popolare di De Gasperi, né del socialismo liberale di Rosselli e Gobetti. Più volte abbiamo trovato politici che pur dichiarandosi liberali, nelle decisioni importanti della concorrenza tra imprese, o nell’affidare concessioni governative ai privati dei servizi pubblici, hanno scelto gli interessi privati anziché quelli pubblici riguardanti gli interessi dei cittadini di cui sarebbero loro i garanti. D’altronde è proprio in questi casi che si dovrebbe testimoniare la cultura liberale qualora fosse davvero presente, ed invece sono moltissimi i casi che dimostrano il contrario.
Innanzitutto partendo dalla trasparenza degli affidamenti ai privati di interessi pubblici. Lo Stato e tutti i poteri locali non rendono quasi mai trasparenti gli affidamenti a privati comunicando i loro diritti e i loro doveri. Raramente i cittadini vengono informati degli obblighi del concessionario, così come delle penalità nel caso la gestione del servizio risulti carente. Il caso principe é quello di autostrade, ma anche quelli delle assicurazioni, servizi bancari, gas, acqua, energia, trasporti. Affari questi miliardari che sfidano giornalmente la pazienza degli utenti che pagano tariffe altissime senza alcuna giustificazione.
Colossi come le autostrade che tra i fiumi cash flow di denari giornalieri e sovvenzioni statali per rifacimenti e costruzioni di strade, dispongono di montagne di denaro che in qualche quantità si dirige verso ovunque c’è una opinione pubblica da orientare, un potere da controllare, un ente da condizionare. A questo proposito e significativa l’affermazione di un secolo e mezzo fa dell’ispettore delle ferrovie inglesi Tayler che nel valutare la unificazione in una sola società privata delle strade ferrate, che avrebbe potenzialmente accumulato capitali enormi, ebbe a dire: “Si porrà ora la questione se è lo Stato che deve governare le ferrovie, o se le ferrovie debbano governare lo Stato”.
Silvio Spaventa, un grande liberale ministro dei lavori pubblici del governo Minghetti, valutava inefficaci i controlli statali sulle ferrovie private francesi, perché le compagnie dispongono di grandi mezzi finanziari che usano per comprare la parola o il silenzio. Per questa ragione combatté con grande decisione il monopolio ferroviario privato e pretese che diventassero pubbliche, perché con gli enormi capitali accumulati grazie alle concessioni dello Stato, le compagnie compravano giornali per influenzare negativamente la opinione pubblica, e compravano pezzi della politica per assecondare i propri disegni. Ora, il fatto che nell’ottocento ci fossero confronti su questi temi ed in quest’epoca no, vuol dire che lo spirito liberale è pressoché inesistente, come la resistenza ai fenomeni su descritti. Vorrà pur significare qualcosa se nei programmi di partito in campagna elettorale e nei dibattiti televisivi questi temi sono letteralmente inesistenti.