Le recenti statistiche (e il Rapporto Anvur 2023) relative all’andamento dell’istruzione universitaria in Italia, evidenziano come nel nostro paese esista una “barriera naturale” all’accesso allo studio accademico. In particolare, è presente una forte disuguaglianza sociale derivante da problemi legati ai costi e alle modalità di ingresso, che si ripercuote sulle opportunità e sul futuro lavorativo di tanti giovani (e non), con un divario geografico che ha continuato ad aumentare nel corso dell’ultimo decennio a svantaggio delle regioni del Sud. Di fronte a questi ostacoli e alle disuguaglianze territoriali e sociali, le università digitali (ormai consolidate) possono rappresentare una soluzione dinamica e intelligente, in grado di coniugare diritto allo studio e qualità della didattica, facilitando il percorso (attraverso strumenti flessibili e servizi innovativi che garantiscono una didattica online perfettamente in linea con le esigenze personali) anche alle categorie poco agevolate, come gli studenti-lavoratori e i lavoratori-studenti, che difficilmente riuscirebbero a concludere gli studi e a laurearsi negli atenei tradizionali.
Il mondo universitario telematico offre, insomma, la possibilità di studiare a chi non ha i mezzi per spostarsi in una città universitaria e anche a chi lavora, riducendo notevolmente i costi sia in termini economici che umani. Non sono da trascurare, però, gli altri punti di forza delle università digitali. Pensiamo ai diversi vantaggi ambientali che questi contenitori dell’e-learning offrono, rispondendo pienamente ai punti-chiave della transizione ecologica: il contenimento dell’inquinamento atmosferico derivato dalla riduzione degli spostamenti, l’eliminazione dell’utilizzo della carta e la riduzione del consumo di energia. Purtroppo, le innovazioni tecnologiche nella formazione e quelle introdotte in altri settori fondamentali della nostra economia vengono considerate un macigno da una parte considerevole della sfera politica: quest’ultima, nel rispondere in toto al potere immenso delle baronie accademiche statali, ostacola la crescita del sistema universitario telematico.
Pensiamo, ad esempio, alla proposta insensata e penalizzante di costringere le università digitali ad avere lo stesso rapporto tra studenti e docenti, come se le modalità di studio e di insegnamento fossero identiche tra il modello universitario tradizionale e quello digitale. Ma, soprattutto, come potrebbero mantenersi le università telematiche, se dovessero assumere un numero considerevole di docenti? Non mi pare che nelle casse degli atenei digitali entrino soldi pubblici: vivono solo di rette garantite dagli studenti che vogliono un’università più libera, più aperta, più competitiva, più inclusiva e più accessibile.