Nelle Commissioni parlamentari competenti sono all’esame disegni e progetti di legge – in generale presentati da esponenti dei gruppi di centrodestra – recanti modifiche all’attuale disciplina dell’equo compenso a favore dei liberi professionisti. La disciplina dell’equo compenso è stata introdotta, nella scorsa legislatura, per porre rimedio a situazioni di squilibrio nei rapporti contrattuali tra professionisti e clienti “forti”, individuati nelle imprese bancarie e assicurative nonché nelle imprese diverse dalle PMI.
Sono stati infatti approvati in rapida successione e in diversi provvedimenti che hanno disciplinato l’equo compenso per le prestazioni professionali degli avvocati, poi esteso anche alle altre professioni regolamentate e nell’ambito del lavoro autonomo. In particolare, la legge ha disciplinato il compenso degli avvocati nei rapporti professionali con imprese bancarie e assicurative, nonché con imprese diverse dalle microimprese e dalle piccole e medie imprese, quando il rapporto professionale sia regolato da una convenzione.
Il legislatore ha introdotto una disciplina del compenso e ha richiesto che tale compenso sia equo, presupponendo che la convenzione sia stata predisposta unilateralmente dal cliente “forte” a svantaggio del professionista.
Si noti bene il problema. Il legislatore – su pressione delle categorie professionali – è intervenuto nel merito delle stesse convenzioni, sottoscritte tra le parti, stabilendo che è equo il compenso dell’avvocato determinato nelle convenzioni quando esso sia: «proporzionato alla quantità e alla qualità del lavoro svolto» e «al contenuto e alle caratteristiche della prestazione legale» nonché conforme ai parametri determinati dal decreto del Ministro della Giustizia per la determinazione del compenso dell’avvocato per ogni ipotesi di mancata determinazione consensuale e liquidazione giudiziale. La stessa legge, inoltre, ha esteso il diritto all’equo compenso previsto per la professione forense, in quanto compatibile, anche a tutti i rapporti di lavoro autonomo che interessano professionisti, iscritti o meno agli ordini e collegi, i cui parametri sono definiti dai decreti ministeriali di attuazione del decreto-legge n. 1 del 2012, il quale, con esclusivo riferimento alle professioni ordinistiche, ha soppresso le tariffe professionali ed ha introdotto i parametri per la liquidazione giudiziale dei compensi in caso di mancato accordo tra le parti. In sostanza ciò che era stato fatto uscire dalla porta in nome della concorrenza ha potuto rientrare dalla finestra.
Eppure è bene ricordare, peraltro, che in data 22 novembre 2017 l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, nell’esercizio dei suoi poteri, ha deliberato l’invio di una segnalazione ai presidenti del Senato della Repubblica e della Camera dei deputati, nonché al Presidente del Consiglio dei Ministri, avente ad oggetto alcune disposizioni previste nel c.d. decreto fiscale (2017).
In primo luogo, era stata segnalata la contrarietà ai principi concorrenziali di quanto previsto in tema di “equo compenso” per le professioni, che introduceva il principio generale per cui le clausole contrattuali tra i professionisti e alcune categorie di clienti, che fissino un compenso a livello inferiore rispetto ai valori stabiliti in parametri individuati da decreti ministeriali, sono da considerarsi vessatorie e quindi nulle. Secondo l’Autorità, la disposizione, nella misura in cui collega l’equità del compenso a parametri tariffari contenuti nei decreti anzidetti, reintroduce di fatto i minimi tariffari, con l’effetto di ostacolare la concorrenza di prezzo tra professionisti nelle relazioni commerciali con alcune tipologie di clienti c.d. “forti” e ricomprende anche la Pubblica Amministrazione. L’Autorità ha sottolineato come, secondo i consolidati principi antitrust nazionali e comunitari, le tariffe professionali fisse e minime costituiscano una grave restrizione della concorrenza, in quanto impediscono ai professionisti di adottare comportamenti economici indipendenti e, quindi, di utilizzare il più importante strumento concorrenziale, ossia il prezzo della prestazione.
L’Autorità aveva quindi concluso che la nuova disposizione, in quanto idonea a reintrodurre nell’Ordinamento un sistema di tariffe minime, peraltro esteso all’intero settore dei servizi professionali, non rispondeva ai principi di proporzionalità concorrenziale, oltre a porsi in stridente controtendenza con i processi di liberalizzazione che, negli anni più recenti, hanno interessato il nostro ordinamento anche nel settore delle professioni regolamentate”.
Anche la Corte di Giustizia dell’Unione Europea (sezione IV), nella sentenza 4 luglio 2019, caso C377/17 ha affermato che in materia di compensi professionali, l’indicazione delle tariffe minime e massime è vietata in quanto incompatibile con il diritto dell’Unione Europea, ma sono comunque ammesse deroghe per motivi di interesse pubblico, come la tutela dei consumatori, la qualità dei servizi e la trasparenza dei prezzi.
Nella vicenda oggetto della sentenza, la Commissione UE aveva chiesto alla Corte di verificare se, mantenendo tariffe obbligatorie per gli architetti e gli ingegneri, la Germania fosse venuta meno agli obblighi ad essa incombenti relativi ai servizi nel mercato interno. Per essere conformi agli obiettivi di tale direttiva le tariffe devono essere non discriminatorie, necessarie e proporzionate alla realizzazione di un motivo imperativo di interesse generale. La Corte, nel caso di specie, ha ritenuto che le tariffe obbligatorie previste in Germania per i servizi di progettazione di base degli architetti e degli ingegneri violino la direttiva, in quanto non idonee a perseguire in modo coerente e sistematico i “motivi imperativi di interesse generale” addotti dalla Germania, quali in particolare la garanzia dell’elevata qualità delle prestazioni professionali e la tutela dei consumatori.
Incuranti di tutte queste osservazioni i nuovi ddl propongono che sia stabilita la nullità delle pattuizioni che prevedano un compenso manifestamente sproporzionato rispetto all’opera prestata o al servizio reso, cioè se inferiore ai parametri o alle tariffe fissati con decreti ministeriali. La convenzione, il contratto e anche le gare predisposte dal committente nonché qualsiasi accordo che preveda un compenso inferiore a tali valori potranno essere impugnati esclusivamente dal professionista innanzi al tribunale, al fine di renderli nulli e di chiedere la rideterminazione giudiziale del compenso stabilito.
Il tribunale, secondo il ddl, rideterminerà il compenso secondo i parametri o le tariffe ministeriali, tenendo conto dell’opera effettivamente prestata e potendo chiedere al professionista di acquisire il parere di congruità dell’ordine o del collegio professionale, che costituisce piena prova sulle caratteristiche, sull’urgenza e sul pregio dell’attività prestata, sull’importanza, sulla natura, sulla difficoltà e sul valore dell’affare, sulle condizioni soggettive del cliente, sui risultati conseguiti, sul numero e sulla complessità delle questioni giuridiche e di fatto trattate. Nel procedimento si prevede, pertanto, un espresso divieto di avvalersi della consulenza tecnica.
Il ddl prevede, inoltre, la nullità di qualsiasi pattuizione che vieti al professionista di pretendere acconti nel corso della prestazione o che gli imponga l’anticipazione di spese o che attribuisca al committente o cliente vantaggi sproporzionati rispetto alla quantità e alla qualità del lavoro svolto o del servizio reso. Sono definite nulle le clausole vessatorie.
Si prevede che i diritti individuali omogenei dei professionisti possano essere tutelati anche attraverso l’azione di classe, che potrà essere proposta dal Consiglio nazionale dell’ordine al quale sono iscritti i professionisti interessati o dalle associazioni maggiormente rappresentative, individuate dai rispettivi ordini.
Ad avviso di chi scrive se queste modifiche fossero approvate, una disciplina discutibile, come quella in vigore, diverrebbe scandalosa. Non si è mai visto che a un soggetto (sia esso individuale o collettivo) che, senza subire dolo o violenza, concorda con un altro un compenso specifico per una prestazione professionale, sia consentito, a lui solo, di ricorrere in giudizio per farne dichiarare la nullità e rideterminarne l’importo, proibendo persino al giudice di avvalersi di consulenze tecniche, salvo il parere di congruità dell’ordine o del collegio professionale. E l’Unione europea? Chiediamo al Parlamento”, aggiunge Marina Calderone, vicepresidente dell’associazione dei professionisti, “di calare questo provvedimento nella realtà del nostro Paese che non è quello preso in considerazione generalmente dalla legislazione europea”.
Comunque, questa linea di condotta costituisce un caso: non si erano mai visti professionisti, singoli o associati, che – quando stipulano delle convenzioni o degli accordi – si autoproclamassero preventivamene incapaci di intendere e volere, tanto da chiedere la nullità di quanto hanno liberamente sottoscritto.