Non si comprende il pontificato di Francesco senza la centralità della preghiera. Il Papa ha dedicato un ciclo di udienze al discernimento. Soffermandosi su uno dei suoi elementi costitutivi: la preghiera come familiarità con il Signore. Un “ciao” fatto di vicinanza e di gesti, più che di parole “a pappagallo”. Quindi “andiamo avanti con la preghiera del ciao”. Pregare, insegna il Pontefice, “non è recitare preghiere come un pappagallo”. La preghiera è “rivolgerci a Dio con semplicità e familiarità, come si parla a un amico. È saper andare oltre i pensieri, entrare in intimità con il Signore, con una spontaneità affettuosa”. Infatti “la vera preghiera è familiarità, è affetto con il Signore”: è questo il segreto della vita dei santi. “Questa familiarità vince la paura o il dubbio che la sua volontà non sia per il nostro bene. Una tentazione che a volte attraversa i nostri pensieri e rende il cuore inquieto e incerto o amaro”. Il discernimento, sottolinea “non pretende una certezza assoluta. Non è un metodo chimicamente puro. Perché riguarda la vita, e la vita non è sempre logica. Presenta molti aspetti che non si lasciano racchiudere in una sola categoria di pensiero. Non siamo solo ragione, non siamo macchine. Non basta ricevere delle istruzioni per eseguirle. Gli ostacoli, come gli aiuti, a decidersi per il Signore sono soprattutto affettivi, dal cuore”. E aggiunge: “Molti, anche cristiani, pensano che Gesù possa anche essere il Figlio di Dio. Ma dubitano che voglia la nostra felicità. Anzi, alcuni temono che prendere sul serio la sua proposta significhi rovinarsi la vita, mortificare i nostri desideri, le nostre aspirazioni più forti”. Con queste parole il Papa stigmatizza la “falsa immagine di Dio che Satana suggerisce fin dalle origini. Quella di un Dio che non vuole la nostra felicità”. E “questi pensieri fanno talvolta capolino dentro di noi che Dio ci chieda troppo abbiamo paura che non ci voglia davvero bene”. Infatti “il segno dell’incontro con il Signore è la gioia. Nel primo incontro col Signore ognuno di noi diventa gioioso: è una cosa bella. La tristezza, o la paura, sono invece segni di lontananza da lui. Chi si allontana dal Signore non è mai contento, pur avendo a propria disposizione una grande abbondanza di beni e possibilità. Gesù mai costringe a seguirlo. Gesù ti fa sapere la sua volontà, con tanto cuore ti fa sapere le cose, ma ti lascia libero. E questo è la cosa più bella della preghiera. Invece, quando noi ci allontaniamo da Gesù ce ne andiamo con la tristezza del cuore”. “Discernere non è facile perché le apparenze ingannano– osserva Francesco-. Ma la familiarità con Dio può sciogliere in modo soave dubbi e timori. Rendendo la nostra vita sempre più ricettiva alla sua ‘luce gentile’, secondo la bella espressione del Santo John Henry Newman. I santi brillano di luce riflessa e mostrano nei semplici gesti della loro giornata la presenza amorevole di Dio, che rende possibile l’impossibile. Si dice che due sposi che hanno vissuto insieme tanto tempo volendosi bene finiscono per assomigliarsi. Qualcosa di simile si può dire della preghiera affettiva. In modo graduale ma efficace ci rende sempre più capaci di riconoscere ciò che conta per connaturalità. Come qualcosa che sgorga dal profondo del nostro essere”. E “stare in preghiera non significa dire parole, parole, parole. No, aprire il cuore a Gesù, avvicinarsi a Gesù, lasciare che entri nel mio cuore e mi ci faccia sentire la sua presenza. E lì possiamo discernere quando è Gesù o quando siamo noi con i nostri pensieri, tante volte lontani da Gesù. Chiediamo questa grazia. Di vivere una relazione di amicizia con il Signore, come un amico parla all’amico”. Il modello è Sant’Ignazio.“Ho conosciuto un vecchio fratello, un religioso, che è un portiere di un collegio. Lui, ogni volta che poteva si avvicinava alla cappella, guardava l’altare e diceva: ‘Ciao!’. Perché aveva vicinanza con Gesù. Ciao! Ti sono vicino e tu mi sei vicino– racconta Jorge Mario Bergoglio-.Questa vicinanza, vicina affettiva con i fratelli, vicinanza con Gesù, un sorriso, un semplice gesto. E non recitare parole che non arrivano al cuore. È una grazia che dobbiamo chiedere gli uni per gli altri. Vedere Gesù come il nostro amico più grande e fedele, che non ricatta. Soprattutto che non ci abbandona mai, anche quando noi ci allontaniamo da lui. Quando noi ci allontaniamo da lui, Gesù rimane alla porta del cuore. Rimane lì, a portata di mano, a portata di cuore, perché lui è sempre fedele. Salutare il Signore con il cuore è la preghiera dell’affetto, della vicinanza. Con poche parole ma con gesti e con opere buone”. Al suo successore a Buenos Aires, Francesco ha scritto una lettera nel ruolo di gran cancelliere della Pontificia università cattolica argentina. Ad offrire l’occasione a Jorge Mario Bergoglio è stato il centesimo anniversario della facoltà di teologia. Il Papa si rivolge al cardinale Mario Aurelio Poli. Lo chiama “fratello”. E gli ricorda già nelle prime righe del messaggio che questo anniversario coincide con quello della chiusura del Concilio Vaticano II. Che è stato un aggiornamento, una rilettura del Vangelo nella prospettiva della cultura contemporanea. Un passaggio epocale che ha prodotto un irreversibile movimento di rinnovamento che viene dal Vangelo. Perciò, adesso, bisogna andare avanti. Ma come si fa ad andare avanti? Insegnare e studiare teologia significa vivere su una frontiera. Quella in cui il Vangelo incontra le necessità della gente a cui va annunciato in maniera comprensibile e significativa, risponde il Pontefice. Alla larga, dunque, da una teologia che si esaurisce nella disputa accademica o che guarda l’umanità da un castello di vetro. Si impara per vivere. Teologia e santità sono un binomio inscindibile. La teologia elaborata nelle accademie deve essere radicata e fondata sulla Rivelazione, sulla Tradizione. Ma è tenuta anche ad accompagnare i processi culturali e sociali, in particolare le transizioni difficili. Oggi, infatti, la teologia deve farsi carico anche dei conflitti. Non solamente quelli che sperimentiamo dentro la Chiesa. Ma anche quelli che riguardano il mondo intero. E che si vivono lungo le strade dell’America Latina. Francesco esorta a non accontentarsi di una teologia da tavolino. Il luogo di riflessione dei teologi siano le frontiere. Un monito paterno e sollecito a non cadere nella tentazione di verniciarle, di profumarle, di aggiustarle un po’ e di addomesticarle. Infatti anche i buoni teologi, come i buoni pastori, odorano di popolo e di strada. E, con la loro riflessione, versano olio e vino sulle ferite degli uomini. Un ammonimento in puro stile conciliare: la teologia sia espressione di una Chiesa che è ospedale da campo. Che vive la sua missione di salvezza e guarigione nel mondo. Quindi la misericordia non è solo un atteggiamento pastorale ma è la sostanza stessa del Vangelo di Gesù.Francesco parla alle accademie del mondo intero e sollecita a studiare come nelle varie discipline (dogmatica, morale, spiritualità, diritto) possa riflettersi la centralità della misericordia. La spiegazione che Jorge Mario Bergoglio offre è un compendio della sua missione di vescovo di Roma. Senza la misericordia la teologia, il diritto, la pastorale corrono il rischio di franare nella meschinità burocratica o nell’ideologia, che di natura sua vuole addomesticare il mistero. Per questo comprendere la teologia è comprendere Dio, che è Amore. Chi è dunque lo studente che le facoltà di teologia sono chiamate a formare a sei decenni dalla conclusione del Concilio? Certamente non un teologo da museo che accumula dati e informazioni sulla Rivelazione senza però sapere davvero che cosa farsene. Né tantomeno uno che resta al balcone della storia. Francesco raccomanda che il teologo formato nelle facoltà sia una persona capace di costruire attorno a sé umanità, di trasmettere la divina verità cristiana in dimensione veramente umana. E non un intellettuale senza talento, un eticista senza bontà o un burocrate del sacro.
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