Le donne che scelgono di non diventare madri rappresentano una parte non trascurabile della popolazione femminile. Secondo una ricerca condotta in Italia nel 2020 una donna su quattro ha escluso consapevolmente dal proprio progetto esistenziale la maternità. Sono le childfree, perlopiù donne con carriere gratificanti e residenti al Nord del Paese. Mentre con il termine childless si indicano le donne, che pur desiderando la prole, sono costrette a rinunciarvi per motivi professionali o economici. La preoccupazione di non poter provvedere al sostentamento dei figli è la principale ragione che dissuade dalla genitorialità.
La precarietà dell’occupazione femminile, che si è aggravata in seguito all’emergenza sanitaria, ha fatto registrare un ulteriore calo delle nascite. L’Italia detiene in Europa il record negativo del numero dei nati. Il comportamento richiesto alle istituzioni va calibrato assecondando l’aspirazione delle donne. Agevole nel primo caso dovendosi limitare a riconoscere il diritto all’autodeterminazione e il rispetto della vita privata per chi opta di non divenire genitore. Nel secondo caso, la questione diviene più complessa poiché lo Stato è tenuto ad un comportamento positivo per rendere reale il diritto di ogni persona ad avere dei figli. Per aiutare le donne “acrobate” che si devono ingegnare per far fronte al lavoro e alle incombenze legate ai figli.
Si entra nella logica interventista del Welfare State in cui non basta la proclamazione teorica dei diritti ma occorre declinare in concreto il loro godimento. Fin dalla nascita del nuovo ordinamento repubblicano il tema della natalità è stato avvertito come centrale, attraverso la valorizzazione della funzione sociale della maternità e la protezione del rapporto madre – bambino, anche al di fuori della famiglia legittima. Non solo nella fase della gravidanza ma anche nelle fasi successive per consentire l’assidua partecipazione della madre allo sviluppo psico – fisico della prole. Tanto che la prima sottocommissione dell’Assemblea costituente elaborò un preciso indirizzo di politica legislativa per incoraggiare i cittadini alla formazione di una famiglia, con aiuti economici rivolti soprattutto ai nuclei familiari numerosi.
Il testo iniziale prevedeva l’assunzione del compito da parte “della Repubblica di tutelare la famiglia per l’adempimento della sua missione e per la saldezza morale e la prosperità della Nazione”. La formula rivista e poi tradotta nell’attuale art. 31 dispone che “La Repubblica agevola con misure economiche ed altre provvidenze la formazione della famiglia e l’adempimento dei relativi compiti, con particolare riguardo alle famiglie numerose. Protegge la maternità, l’infanzia e la gioventù”. La Corte costituzionale nel 1995 per dare concretizzazione al precetto suggerì al legislatore l’adozione del quoziente familiare o altri strumenti analoghi al fine di prevedere la diminuzione delle imposte all’aumentare del numero dei figli. Suggerimenti che non vennero mai accolti.
Una prima applicazione al programma costituzionale si è avuta solo da recente con il bonus bebè e da ultimo con l’assegno unico universale voluto fortemente dal Governo Draghi. Il tema della maternità si intreccia con quello della interruzione volontaria della gravidanza e trova riscontro nelle scelte compiute con la legge 22 maggio 1978, n. 194, che ha cercato di realizzare i criteri di tutela minima di interessi ritenuti fondamentali dalla Costituzione. L’art. 1 contiene l’assicurazione della garanzia del diritto alla procreazione responsabile, “il riconoscimento del valore sociale della maternità e l’affermazione della tutela da parte dello Stato della vita umana fin dal suo inizio”. L’articolo afferma che l’interruzione volontaria della gravidanza non è mezzo di controllo delle nascite e impegna le istituzioni pubbliche a promuovere i servizi sociosanitari, nonché altre iniziative necessarie per evitare che l’aborto sia usato ai fini della limitazione delle nascite. La Corte con una importante decisione (n. 35 del 1997) ha ritenuto inammissibile il referendum richiesto su parti di tale disciplina affermando che ”la tutela del concepito ha fondamento costituzionale, la cui situazione giuridica si colloca, sia pure con particolari caratteristiche sue proprie, tra i diritti inviolabili dell’uomo riconosciuti nell’art. 2 della Costituzione, denominando tale diritto come diritto alla vita, oggetto di specifica salvaguardia costituzionale e che sono diritti fondamentali anche quelli relativi alla salute e alla vita della donna gestante”. Il messaggio della Consulta è chiaro: tali diritti (della madre e del concepito) sono costituzionalmente garantiti e non aggredibili da leggi ordinarie, proprio perché realizzano, tramite la l.194, un equilibrato bilanciamento tra diritti fondamentali. Punti fermi dai quali partire per politiche pubbliche di aiuto a tutte le donne che desiderano diventare mamme.