Tra gli ultimi provvedimenti del governo spicca il piano per il sostegno delle nuove attività produttive. Le start up come rimedio alla desertificazione industriale. Nelle stesse ore partivano le borse di studio per l’innovazione tecnologica in classe.
“Non esiste peggiore povertà di quella che priva del lavoro e della dignità del lavoro” scrive Papa Francesco nell’Enciclica Fratelli Tutti.
Il monito del pontefice risponde perfettamente alla chiamata di responsabilità nella vita economica e politica per la piaga della disoccupazione. Territori un tempo floridi, come il distretto dell’elettrodomestico di Fabriano, soffrono la desertificazione industriale causata dalla delocalizzazione di importanti realtà produttive. Quando una comunità patisce un progressivo impoverimento le conseguenze sociali rischiano di sfuggire di mano con effetti deflagranti.
Le ultime rilevazioni dimostrano che mai come nella crisi economica in atto chi perde il lavoro rischia di finire nella spirale dell’usura, del lavoro nero che provoca il record di morti bianche. È una escalation di depressione individuale e collettiva in grado di inibire ogni visione positiva e costruttiva del futuro. Non si pianifica il domani se l’oggi è privo di progettualità. Se ne ricordino anche i “creativi della finanza” sempre pronti a trasferire i propri interessi laddove scorgono maggiori possibilità di profitto facile.
Il pianto del povero sale in Cielo e nessuno può sentirsi immune dalla sofferenza seminata tra gente tradizionalmente operosa e caparbia. I servizi di assistenza e solidarietà non hanno mai vissuto un periodo così impegnativo, segno che a rivolgersi al circuito dell’ausilio volontario sono categorie e individui finora rimasti sempre al di sopra della soglia di povertà. Gli empori e le mense rappresentano la cartina di tornasole di un disagio sociale che minaccia non solo la sussistenza dei ceti meno abbienti ma la stessa dignità individuale di persone per bene e orgogliosamente attaccate alla loro identità e alle loro radici.
Il volano della crescita ha reso prospere popolazioni e aree che nel tempo hanno dovuto affrontare cicliche tempeste occupazionali. Adesso la pandemia ha fatto precipitare la situazione al punto che non basta svolgere fino in fondo il proprio dovere in aziende ancora forti sul mercato per garantire il necessario sostegno alla propria famiglia. Le promesse di troppi capitàni di industria si sono rivelate fantasie di marinai, svanite al primo canto di sirene straniere.
I bambini, figli di quei padri indaffarati a conservare il minimo vitale, sono gli adulti di domani ai quali affidare la rinascita della nostra civiltà. Privarli di adeguate opportunità educative e formative costituirebbe una scelta autolesionista per una società che può riprendersi solo investendo sulle nuove generazioni. Difendere l’occupazione rappresenta l’ancora di salvezza per mantenere la cellula fondante della contemporaneità: la famiglia.
Tra le mura domestiche ci si prende cura degli anziani, si alimenta il focolare dell’unione coniugale e si prepara la classe dirigente di domani. Quindi lasciare senza lavoro un nucleo familiare penalizza almeno tre generazioni di cittadini la cui responsabilità finirà per gravare inevitabilmente sullo Stato in termini di costi sociali, sanitari e scolastici. Salvo illudersi che si possa scambiare la mancata garanzia dell’occupazione con forme surrettizie di sostegno, frutto di una mentalità assistenzialistica che “dona il pesce invece di insegnare a pescare”.