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Perché il viaggio di Papa Francesco in Congo e Sud Sudan rappresenta un nuovo inizio

Più volte annunciato e più volte rimandato, questo viaggio di Papa Francesco in Sud Sudan e Repubblica Democratica del Congo rappresenta in qualche modo un nuovo inizio. Non tanto perché il primo dopo la scomparsa di Benedetto XVI – e qui sarebbe facile parlare dell’avvio della seconda fase del pontificato, se non fosse che certe classificazioni sono più orecchiabili che autentiche – quanto, semmai, perché giunge a rilanciare un nuovo rapporto con quella periferia della cristianità che dà alla Chiesa uomini di saldezza nella fede ma anche resta, al tempo stesso, il cavallo più focoso della quadriga. Quello più fascinoso ma talvolta il più problematico.

Negli ultimi tre anni, al netto del covid, Bergoglio ha dato l’impressione di voler portare a perfezionamento la lunga fase asiatica del suo pontificato. Ha visitato Giappone, Thailandia, Iraq, Kazakhstan e Bahrein; ha completato l’apertura alle principali sette islamiche, grazie al colloquio con l’imam al Sistani; ha ottenuto il riconoscimento di anni di sforzi e iniziative con la messa nella nuova cattedrale di Nostra Signora d’Arabia. L’altro suo grande viaggio, quello in Canada, seppur rivolto alle nazioni native più che alla popolazione di origine europea, ha avuto con le scuse per gli orrori della politica di assimilazione culturale più uno sguardo rivolto al passato che non al futuro. Si ricomincia invece adesso con l’Africa, terra di promesse non sempre facili da mantenere, dove l’integralismo islamico – quello che si oppone alla logica e alle parole della Fratelli Tutti – è minaccia realizzata in Sud Sudan e, nella Repubblica Democratica del Congo, minaccia più che potenziale. Ancora un paio di settimane fa l’Isis locale ha ucciso 17 persone in una chiesa pentecostale. Sempre nella Repubblica democratica del Congo, negli anni scorsi, la Chiesa cattolica ha svolto un ruolo più che diretto nel risvegliare le coscienze in favore della democrazia. Sarà anche questo, insieme al tema della pace da opporre alla Grande Guerra d’Africa, uno degli argomenti del pellegrinaggio. Forse non il più evidente, di sicuro uno dei più importanti.

Colpisce (si tratta di una coincidenza temporale, ma questo non le toglie alcun significato) la circostanza che la mattina prima del decollo alla volta di Kinshasa, dal Vaticano sia stata pubblicata una lettera a firma dei due principali responsabili del cammino sinodale, i cardinali Mario Grech e Jean Claude Hollerich, che del Sinodo sono Segretario Generale e Relatore Generale. “Vi sono alcuni che presumono di sapere già ora quali saranno le conclusioni dell’Assemblea sinodale. Altri vorrebbero imporre al Sinodo un’agenda, con l’intento di orientare la discussione e condizionarne i risultati”, avvertono, “Chi pretende di imporre al Sinodo un qualche tema dimentica la logica che regola il processo sinodale: siamo chiamati a tracciare una rotta comune a partire dal contributo di tutti. Non si possono introdurre surrettiziamente altri temi, strumentalizzando l’Assemblea e disconoscendo la consultazione del Popolo di Dio”. I destinatari della messa in guardia sono tutti i vescovi impegnati nel processo, erga omnes, ma c’è chi vi ha letto comunque un messaggio alla Chiesa tedesca, con tutte le sue tensioni.

Ecco allora che questo nuovo pellegrinaggio in terra d’Africa rappresenta al tempo stesso una forte continuità con il passato, ma anche l’apertura di un qualcosa di nuovo. Francesco torna a ricordare che la linfa vitale scorre nelle periferie, irruenti ma piene di energie, però è costretto a rammentarsi che anche al centro, nella vecchia Europa che proprio Ratzinger indicava come il terreno d’azione principale per le battaglie del nuovo secolo, la partita è più che aperta e che lui, pastore di una Chiesa in uscita e ospedale da campo, non può permettersi di dimenticare nessuno, né lasciarselo alle spalle. Nemmeno se proviene da quel mondo sazio e disperato che è la Vecchia Europa.

Nicola Graziani: