Editoriale

Francesco in Canada per i nativi. Il “mea culpa” del Papa non è “perdonismo”

“Mea culpa” di papa Francesco tra i nativi in Canada sulle orme di San Giovanni Paolo II. Altro che “perdonismo“, come lo chiamavamo alcuni in senso molto dispregiativo durante il Giubileo del 2000. Karol Wojtyla sapeva bene che il cammino che aveva scelto sarebbe stato lastricato di ostacoli e di incomprensioni. E che avrebbe suscitato
inevitabilmente un certo malessere in non pochi credenti. Disorientati di fronte alla prospettiva (erronea, certo, ma più che comprensibile) che la storia della Chiesa non fosse altro che una serie ininterrotta di colpe. Di ombre oscure. E proprio a motivo di queste preoccupazioni, Giovanni Paolo II decise di percorrere la strada dei “mea culpa”.
Malgrado le resistenze di molti. In realtà (e lo si notò anche in altre situazioni) era la sua “strategia” missionaria. Il suo modo di procedere. Si trattava di terreni nuovi, inesplorati, non ancora battuti. E quindi per non coinvolgervi l’intera Chiesa, il Papa sentiva di dover andare avanti da solo. Facendo da apripista. E mettendo in conto, se le cose fossero andate male, di pagarne le conseguenze. E poi, era tipico di Karol Wojtyla, avuta un’idea, una intuizione, di non farne immediatamente un programma di governo. Ma invece di verificarle nel corso delle occasioni che gli si presentavano.
Così è per il “mea culpa” di Jorge Mario Bergoglio. Più che un viaggio apostolico quello di Francesco in Canada è un pellegrinaggio penitenziale. “Un’occasione sofferta per toccare con mano le ferite lasciate dall’omologazione forzata dei nativi. Anche da parte della Chiesa cattolica. E per chiedere scusa per le morti, le segregazioni, gli stupri ai danni di migliaia di bambini. Per estendere al resto del mondo, il valore autentico dell’inculturazione della fede, celebrato tre anni fa col Sinodo sull’Amazzonia“, sintetizza il vaticanista Giovanni Panettiere. Il 37° viaggio apostolico internazionale è iniziato ieri con il ricorso alla sedia a rotelle. E raggiungerà il suo culmine negli incontri con i sopravvissuti a quello che, tra la fine dell’Ottocento e la metà del secolo scorso, è stato un vero e proprio genocidio culturale ai danni degli aborigeni.
Foto © VaticanMedia

“In un secolo oltre 150mila piccoli nativi sono stati strappati alle famiglie di origine dalle autorità civili. Per essere “rieducati” nelle scuole residenziali governative. In gran parte gestite dalla Chiesa cattolica- sottolinea Panettiere-. Qui vennero privati della loro identità di aborigeni. Dalla lingua ai costumi, ai culti tradizionali. E fu loro imposto il modello occidentale. Religione cristiana compresa. In condizioni di soprusi e segregazioni“. Il 42% di questi minori morì prima del compimento dei 16 anni. Nel maggio 2021 sono stati ritrovati i resti di 215 bambini. Mai restituiti alle famiglie. In una fossa comune vicino l’ex scuola residenziale indiana Kamioops. Nella Columbia britannica.Anche il primo “mea culpa” di Giovanni Paolo II fu pronunciato in viaggio. Durante la visita nell’allora Cecoslovacchia. C’era una bruttissima storia. Vecchia di secoli. Ma che continuava ad inasprire i rapporti tra cattolici e protestanti. E a infoltire le file degli atei, degli agnostici. Giovanni Hus, un sacerdote boemo di tendenze riformiste, antesignano di Lutero, era stato invitato al Concilio di Costanza. Rifiutatosi di ritrattare le proprie idee, era stato bruciato vivo il 6 luglio 1415. Ebbene, papa Wojtyla capì subito il problema; e, nel chiedere perdono, si impegnò pubblicamente – come poi ha fatto – a una revisione storica di quella tragica vicenda. E poi la Grecia, un altro degli episodi più emblematici. L’invito al Papa era arrivato dalle autorità dello Stato, mentre i vescovi ortodossi non riuscivano neppure a nascondere la loro contrarietà. Andato in avanscoperta, come sempre, l’organizzatore dei viaggi pontifici, il padre Roberto Tucci, al ritorno aveva riferito a Wojtyla. Aveva scovato il perché di quell’atteggiamento ostile. Era per via del “sacco di Costantinopoli”. Consumato dai cristiani latini durante la quarta Crociata, nel 1204. Era passata una eternità, ma ancora bruciava il ricordo di quell’atto barbarico. Così, previsto ovviamente un incontro, anche se sulla carta molto formale, con i vescovi ortodossi, Giovanni Paolo II, improvvisando nel corso del suo discorso, aveva chiesto perdono per l’orrendo massacro compiuto dai crociati. Un autentico shock.Il patriarca aveva strabuzzato gli occhi, i vescovi sembravano tutti basiti. E alla fine, riconciliati, commossi avevano pregato tutti insieme: il Papa e i membri della gerarchia ortodossa. “Riconoscere i cedimenti di ieri è atto di lealtà e di coraggio che ci aiuta a rafforzare la nostra fede», diceva Giovanni Paolo II. In altre parole, fare i conti con il passato senza paura. Proprio come fa papa Francesco tra i nativi in Canada.

Giacomo Galeazzi

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