“L’amore non vive di parole, né può essere spiegato a parole”, insegna Madre Teresa di Calcutta. “Ritornare al cuore” in un mondo nel quale siamo tentati di “diventare consumisti insaziabili e schiavi degli ingranaggi di un mercato” perché il mondo può cambiare “a partire dal cuore”. Papa Francesco dedica al Sacro Cuore di Gesù “Dilexit nos”, la sua quarta enciclica che ripercorre tradizione e attualità del pensiero “sull’amore umano e divino del cuore di Gesù Cristo”. Un appello al cuore dell’Ecclesia. Nella nuova enciclica di Francesco trova conferma le radici conciliari del suo pontificato, incentrato sul dialogo e l’apertura verso tutti gli uomini e le donne di buona volontà. Nella Costituzione “Lumen Gentium”, il secondo capitolo porta come titolo “Il Popolo di Dio”. Una prospettiva che permise al Concilio di superare la visione piramidale e clericale propria del modello di Chiesa-istituzione. Dei membri di questo Popolo disse, appunto, che “i battezzati vengono consacrati per formare un tempio spirituale e un sacerdozio santo”. Che partecipano pure “dell’ufficio profetico di Cristo”. E che “la totalità dei fedeli, avendo l’unzione che viene dal Santo, non può sbagliarsi nel credere, e manifesta questa sua proprietà mediante il senso soprannaturale della fede di tutto il popolo”. Inoltre, seguendo la stessa logica, nel capitolo quarto, dedicato ai laici nella Chiesa, asserì solennemente che nel Popolo di Dio che è la Chiesa “vige fra tutti una vera uguaglianza riguardo alla dignità e all’azione comune a tutti i fedeli nell’edificare il corpo di Cristo“.
È il cuore “che unisce i frammenti” e rende possibile “qualsiasi legame autentico, perché una relazione che non è costruita con il cuore è incapace di superare la frammentazione dell’individualismo“, scrive il Papa citando la spiritualità di santi come Ignazio di Loyola e san John Henry Newman che insegnano, scrive Papa Francesco, che “davanti al Cuore di Gesù vivo e presente, la nostra mente, illuminata dallo Spirito, comprende le parole di Gesù”. E questo ha conseguenze sociali, perché il mondo può cambiare “a partire dal cuore”. Francesco dimostra di aver assimilato profondamente questa prospettiva e lo lascia trasparire costantemente sia nei suoi scritti (nella sola esortazione “Evangelii Gaudium” usa per ben 164 volte la parola “popolo”). Sia soprattutto nel suo modo di agire come vescovo di Roma e come papa della Chiesa universale. Il gesto di chinarsi davanti al popolo credente radunato in piazza San Pietro il giorno della sua elezione per chiedere una preghiera di benedizione per lui prima di dargliela lui stesso.
“Facciamo in silenzio questa preghiera di voi su di me” –, è carico di significato da questo punto di vista. Implica la visione di una Chiesa in cui non c’è divisione tra coloro che la presiedono e gli altri suoi membri, perché tutti e ognuno sono membri, allo stesso titolo radicale, dell’unico Popolo di Dio in Cristo, pur nella diversità dei servizi. “La Chiesa siamo tutti. Dal bambino recentemente battezzato fino ai vescovi, al Papa. Tutti siamo Chiesa e tutti siamo uguali agli occhi di Dio!”, disse in una delle sue udienze pubbliche al ritorno del viaggio in Brasile. E lo ribadì con forza in un’altra: “La Chiesa siamo tutti, tutti! Tutti noi! Tutti i battezzati siamo la Chiesa, la Chiesa di Gesù”. È risaputo che negli anni precedenti alla sua elezione egli si era mosso teologicamente e pastoralmente in quella linea della teologia della liberazione conosciuta come “teologia del popolo”. E che essa ispira attualmente il suo servizio petrino tanto nei suoi scritti quanto, soprattutto, nei suoi atti. Chiesa in uscita verso le periferie“.
Nella sua quarta enciclica Francesco sottolinea come il mondo sembra aver perso il cuore ma che, incontrando l’amore di Cristo, “diventiamo capaci di tessere legami fraterni, di riconoscere la dignità di ogni essere umano e di prenderci cura insieme della nostra casa comune”, come invita a fare nelle sue encicliche sociali Laudato si’ e Fratelli tutti. Davanti al Cuore di Cristo, il Papa chiede al Signore “di avere ancora una volta compassione di questa terra ferita” e riversi su di lei “i tesori della sua luce e del suo amore”, affinché il mondo, “che sopravvive tra le guerre, gli squilibri socioeconomici, il consumismo e l’uso anti-umano della tecnologia, possa recuperare ciò che è più importante e necessario: il cuore”. Una Chiesa, quindi, come ama ripetere spesso papa Francesco, che non è autoreferenziale, ma “in uscita”, “con le porte aperte”. Con un’espressione paradossale arriva a dire, più di una volta: “Preferisco mille volte una Chiesa incidentata, piuttosto che chiusa“, “quando la Chiesa è chiusa, si ammala”. Aperta da una breve introduzione e articolata in cinque capitoli, l’enciclica sul culto del Sacro Cuore di Gesù si apre con la frase “Ci ha amati” che San Paolo dice riferendosi a Cristo e raccoglie, come preannunciato a giugno, “le preziose riflessioni di testi magisteriali precedenti e di una lunga storia che risale alle Sacre Scritture, per riproporre oggi, a tutta la Chiesa, questo culto carico di bellezza spirituale”.
Ai gesti e alle parole d’amore di Cristo è dedicato il secondo capitolo della nuova enciclica, gesti con i quali ci tratta come amici e mostra che Dio “è vicinanza, compassione e tenerezza, mentre nel terzo capitolo, “Questo è il cuore che ha tanto amato”, il Pontefice ricorda come la Chiesa riflette e ha riflettuto in passato “sul santo mistero del Cuore del Signore”. Negli ultimi due capitoli, Papa Francesco mette in evidenza i due aspetti che “la devozione al Sacro Cuore dovrebbe tenere uniti per continuare a nutrirci e ad avvicinarci al Vangelo. L’esperienza spirituale personale e l’impegno comunitario e missionario”. È il quinto e ultimo capitolo quello in cui Jorge Mario Bergoglio approfondisce la dimensione comunitaria, sociale e missionaria di ogni autentica devozione al Cuore di Cristo che vede nell’amore per i fratelli il “gesto più grande che possiamo offrirgli per ricambiare amore per amore“. Dalla costituzione pastorale “Gaudium et Spes” papa Jorge Mario Bergoglio dimostra di aver recepito fondamentalmente la sua opzione di decentramento. Il secondo passo del rinnovamento conciliare produsse, infatti, una vera svolta copernicana nella coscienza ecclesiale. Non più una chiesa centrata su sé stessa, rischio che minacciava il modello di Chiesa-comunione, ma sull’altro, sul mondo. Lo si coglie nella sua solenne dichiarazione iniziale: “Il Concilio non potrebbe dare una dimostrazione più eloquente di solidarietà, di rispetto e d’amore verso l’intera famiglia umana, che mettendo a disposizione degli uomini le energie di salvezza che la Chiesa riceve dal suo Fondatore. Si tratta di salvare l’uomo, si tratta di edificare l’umana società”.
Una opzione che si concretizza nel mettere al centro delle sue preoccupazioni non i bisogni e i problemi propri. Ma il mondo con le sue gioie e le sue speranze, le sue tristezze e le sue angosce attuali. Il Concilio attuò detta opzione focalizzando in partenza – in applicazione del metodo del vedere-giudicare- agire – i gravi problemi economici, sociali, politici e culturali del mondo, e cercando di tracciare delle linee di soluzione. Gli valse l’accusa di orizzontalismo sociologizzante, di tradimento della dimensione verticale della fede, di oscuramento della trascendenza, di infedeltà alle esigenze della religione in quanto rapporto con Dio, accusa a cui diede magistralmente risposta Paolo VI nella sua già citata allocuzione a conclusione del Concilio, appellandosi all’antica storia del Samaritano che è stata – disse – “il paradigma della spiritualità del Concilio”. Fu in quel discorso che egli pronunciò le parole programmatiche che sintetizzano il punto più alto del rinnovamento conciliare. “La Chiesa si è dichiarata quale ancella dell’umanità, proprio nel momento in cui maggiore splendore e maggiore vigore hanno assunto, mediante la solennità conciliare, sia il suo magistero ecclesiastico, sia il suo pastorale governo: l’idea di servizio ha occupato un posto centrale“. Una lezione fatta propria dal pontificato di Francesco.