“Qualcuno deve essere coraggioso, e penso di dover essere io”: parole che erano scritte sul blog di Dylann Roof, il 21enne che ha sparato in chiesa a Charleston, uccidendo nove persone. Era una sorta di manifesto razzista, in cui il nero veniva individuato come nemico. Nelle foto pubblicate sul sito, Roof impugnava la pistola poi usata nella strage, bruciava una bandiera statunitense e sventolava invece vessilli sudisti, come quello che ancora campeggia davanti alle sedi istituzionali della Carolina del Sud.
Il tema razziale sta tornando ad essere purtroppo protagonista del nostro secolo, dove le conquiste fatte nel ‘900 sembrano in procinto di essere spazzate via da nuove paure e diffidenze. Oggetto dell’attacco sono ancora una volta i “neri”, che siano americani o africani, accomunati – anche se con modalità profondamente diverse – da un odio montante e ingiustificato in tutto il globo.
Eppure, c’è un altro aspetto di questa vicenda americana che risulta ancora più inquietante dello stesso razzismo, e ancor più globale. Qualcosa che lo completa e lo amplifica tanto da far rabbrividire: la giovane età dell’assassino. Dylann Roof ha appena 21 anni, e porta con sé un carico di odio tale da fare una carneficina. Lo stesso che spinge tantissimi ragazzi occidentali a lasciare i propri Paesi d’origine e dirigersi vero i territori gestiti dall’Isis, per abbracciare la causa jihadista fino alla morte, che sia la propria o quella di qualche innocente che si troveranno davanti.
Come la storia di Manuel, un ragazzo nato nella Germania nord occidentale che, dopo essersi convertito, è diventato un foreign fighter e ha raggiunto lo Stato islamico. Manuel, ovvero Abu Mus’ab, si sarebbe poi fatto esplodere ad aprile in un attentato kamikaze a Baghdad.
Oppure come l’arresto di una ragazza francese nella provincia sudorientale di Sanliurfa, effettuato dalla polizia turca. La donna, identificata come Sonia Belayati, di 22 anni, sarebbe arrivata a marzo a Istanbul per poi spostarsi in Siria, dove è rimasta fino a inizio giugno. Lì si sarebbe unita con un combattente islamico di alto rango prima di separarsi e finire per circa un mese nelle prigioni jihadiste, da cui sarebbe in seguito stata rilasciata.
Solo due esempi, tra gli oltre 16mila foreign fighters provenienti da più di 90 Paesi che hanno raggiunto le forze dello Stato Islamico entro la fine del 2014. Lo afferma il rapporto annuale sul terrorismo del dipartimento di Stato americano, che sottolinea come tali numeri “superino il tasso di quelli che si recarono in Afghanistan, Pakistan, Iraq, Yemen o Somalia ad ogni momento degli ultimi 20 anni”.
Non a caso forte preoccupazione è stata espressa da molti Governi circa il fenomeno dell’arruolamento in Europa di giovani studenti da parte dell’Isis. L’apprensione inizialmente era concentrata solo sulla Russia, dove il fenomeno sembrava circoscritto alle zone del Caucaso a maggioranza musulmana. Poi è esploso ovunque: in Inghilterra, in America, in Germania, Francia… anche l’Italia non ne è immune.
Ma non è una questione che riguarda solo i teatri di guerra. L’insofferenza la troviamo anche nei confronti di chi sbarca per sfuggire all’orrore delle persecuzioni, così come contri chi abita quei campi Rom dove – spesso dimentichiamo colpevolmente – la malavita ha lucrato per anni. Un business fatto sulla pelle di quelle vittime che oggi diventano il bersaglio dell’intolleranza.
In un mondo in cui ormai tutto sembra essere relativo, il rischio è che lo diventi anche la vita umana. Senza valori fondanti, la società si autodistrugge, e i primi a farne le spese sono proprio i giovani. In mancanza di valori, di punti di riferimento, essi vengono attratti da ciò che gli può apparire netto. Un rapporto del Dipartimento Usa per il terrorismo, sottolinea come lo Stato Islamico abbia saputo servirsi con successo dei social media per diffondere la sua propaganda e fare proseliti proprio tra i più giovani.
La tesi secondo cui le adolescenti si recano in Siria meramente per divenire ”spose della jihad” nel territorio controllato dall’Isis sarebbe ”semplicistica e mina gli sforzi per prevenire la radicalizzazione di altre giovani donne”, afferma l’Institute for Strategic Dialogue and the International Center for the Study of Radicalization del King’s College di Londra, in uno studio sul fenomeno. ”Non vengono prese sul serio”, dice uno degli autori, Melanie Smith. Le ragazze ”si vedono come pellegrini che si imbarcano nella missione di trasformare la regione in un’utopia islamica”.
La cristianità ha tramandato la parola pellegrino come sinonimo di portatore di pace; oggi questo messaggio viene stravolto, e il termine viene usato addirittura per identificare portatori di morte. Se vogliamo avere una chance di salvare i nostri giovani, questa guerra non si può combattere con le bombe, ma facendo tornare i valori al centro dell’educazione. Senza sconti né derive relativiste.