Editoriale

La pace è il nuovo nome del bene comune

La democrazia è una sfida per i cittadini ad essere migliori della vita quotidiana e una sfida dell’umano a se stessi. Non si debbono contrapporre politiche dello sviluppo e politiche sociali. Se i tagli sugli sprechi debbono essere fatti, se tassazioni ci debbono essere ciò non significa penalizzare gli investimenti nella ricerca, nell’innovazione, nello studio, in nuove aree di operosità. Essi, infatti, rappresentano le condizioni indispensabili per favorire la crescita e la ricchezza nazionale. Alla luce della totalità dei diritti la politica non dovrebbe penalizzare i credenti discriminando la libertà religiosa nelle sue varie articolazioni, come anche l’obiezione di coscienza nei confronti dell’aborto, della guerra, dell’eutanasia. La pace è il nuovo nome del bene comune e le comunità politiche sono chiamate a riconoscere, tutelare e promuovere i diritti e i doveri perché il vero riformismo si deve accompagnare alla difesa e alla promozione di questi diritti.

In conformità con questi principi fondamentali della visione umana e cristiana, il Magistero pontificio esclude come via lecita per la regolazione delle nascite, l’interruzione diretta del processo generativo già iniziato, e soprattutto l’aborto. E invece gli attacchi al diritto naturale sono continui. Basti pensare alle varie proposte di includere l’aborto e l’eutanasia nel catalogo dei diritti umani fondamentali. Ciò è riuscito, ad esempio, alla Francia, nella quale c’è stata l’approvazione del parlamento francese di una risoluzione che eleva l’aborto a diritto fondamentale. Molte di queste proposte non equivalgono ad un aggiornamento dei diritti umani. Documentano, piuttosto, come i diritti non siano più pensati quali espressioni della dignità dell’uomo in quanto creatura di Dio, aventi un fondamento nella legge morale naturale. Si tratta, spesso, di pretese arbitrarie, prive di un fondamento obiettivo. Nascono da schemi culturali di natura meramente sociologica. Considerare l’aborto come “diritto” apre un baratro di cui non si scorge il fondo: si praticherà quando e come si vuole, senza limiti, nei suoi confronti non varrà l’obiezione di coscienza, che pure è caposaldo delle libertà personali.

L’indebolimento della fede e di una spiritualità cristiana incarnata favorisce lo scollamento tra la dimensione religiosa della vita del credente e il suo impegno sociopolitico. A lungo andare, ciò asseconda il secolarismo dei movimenti sociali di ispirazione cristiana rispetto ai valori evangelici e all’esperienza di una fede vissuta profondamente, mediante una spiritualità incarnata. Ciò finisce per generare il disfacimento di una formazione e di una mentalità cristiane, ma anche la frammentazione della identità dei cattolici. Si diffonde così il convincimento che la propria fede non includa una vera e propria vocazione al sociale e alla politica. Da ciò deriva la tentazione di vivere una netta separazione tra fede e impegno sociale, tra fede e politica, tra ragione e politica. Il convincimento base è: nulla di nuovo e di rivoluzionario può derivare dalla propria fede per la società e per il mondo.

mons. Mario Toso

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