Chiede un montascale per la sua disabilità motoria e lo Stato le propone un’eutanasia. E’ quanto successo, in Canada, ad un’atleta paralimpica, Christine Gauthier, medaglia d’oro di canottaggio agli Invictus Games del 2016. Gauthier è rimasta in sedia a ruote dopo un’incidente avvenuto durante un addestramento dell’esercito. La proposta shock di accedere alla “dolce morte” proviene infatti dal servizio per i veterani canadesi (Vac), il quale anziché risolvere i ritardi nell’istallazione del montascale ha pensato bene di offrire una soluzione più definitiva, ovvero levare di mezza una sua assistita.
Insomma ti serve assistenza e prossimità ma un’iniezione letale è tutto quello che ti garantisce il Paese che hai servito, prima come militare poi come sportivo di successo. Qualcuno potrebbe obiettare che questo è un caso limite, che un Paese che legalizza l’eutanasia come il Canada poi non la propone ai suoi cittadini alla stregua di qualsiasi trattamento sanitario. In realtà i fatti ci dicono che la discesa imboccata dai Paesi che hanno reso possibile l’eutanasia e il suicidio assistito è molto più ripida e veloce di quello che si pensi. Il tutto ammantato da un pietismo ipocrita che parte dal concetto di eliminare la sofferenza ma che nel concreto si realizza con l’eliminazione di tutti i sofferenti.
Fatto sta che dopo un’adizione di Gauthier al parlamento del Canada sono emersi altri casi simili assistiti dal servizio per i veterani e la questione è arrivata sul tavolo del governo e del primer Trudeau. D’altra parte non è un caso che in tutti Paesi che hanno legalizzato le pratiche eutanasiche (in alcune nazioni l’accesso è garantito anche ai depressi, previo ok di una commissione) i casi di “decessi assistiti” sono aumentati esponenzialmente in pochissimi anni. In Canada ormai si è superata la soglia dei 10mila pazienti l’anno; in Belgio e l’Olanda, Paesi pionieri nella depenalizzazione della pratica, sono almeno 6000 le persone che si fanno eliminare ogni anno. E proprio dal Belgio lo scorso ottobre si è consumato l’ennesimo “caso limite”, una ragazza di 23 anni, Shanti De Corte, ha ottenuto di sottoporsi all’eutanasia, perché soffriva di grave depressione e disturbo da stress post-traumatico, dopo che il 22 marzo del 2016 aveva assistito ed era sopravvissuta all’attentato all’aeroporto di Zavetem di Bruxelles.
La deriva eutanasica e mortifera sta prendendo piede anche nella mentalità italiana, non scandalizzano più infatti i viaggi in Svizzera, organizzati da Marco Cappato e dall’Associazione Coscioni, per portare a morire italiani che chiedono il suicidio assistito. Il fenomeno del turismo dell’eutanasia è passato, in poco tempo, da persone in una fase terminale della malattia o completamente non autosufficienti a soggetti malati ma stabilizzati e ancora autonomi; ora è richiesto da persone che, per intenderci, si sono recate con le loro gambe nelle cliniche della morte. Fatto sta che lo stesso Cappato, autodenunciandosi ai Carabinieri, ha spiegato che ha accompagnato in Svizzera persone che non rientravano nei casi previsti dal pronunciamento della Consulta fatto nel 2019 sul caso dj Fabo, e che ha aperto al suicidio assistito per coloro che “sono tenuti in vita da trattamenti di sostegno vitale”. Insomma l’argine si è rotto anche in Italia, soprattutto sul piano morale, tant’è che il comune di Milano il 7 dicembre ha premiato Cappato con l’Ambrogino d’oro, in piena contraddizione con il nome di un riconoscimento dedicato alla memoria di uno dei più grandi santi della storia, apostolo della vita e della speranza.
Il paradosso più grande è che spesso sono proprio le società che dicono di promuovere l’inclusione e la solidarietà a spingere per l’eliminazione dei soggetti improduttivi. La società dello scarto, additata da Papa Francesco, ha una chiara impronta eugenetica che porta all’isolamento di coloro che non sono più prestanti e induce anziani, disabili e malati a chiedere di essere eliminati per non disturbare la parte attiva della popolazione. Ma in realtà nessuno che chiede veramente la morte se può godere della prossimità delle persone care e di cure dignitose accessibili.
La scelta per la vita deve essere quindi sostenuta da uno Stato che finalmente finanzi la legge sulle cure palliative e che metta i parenti dei malati nelle condizioni di conciliare lavoro e la funzione di caregiver con permessi, assistenza domiciliare e sostegno per l’acquisto di medicinali e articoli sanitari. Non si tratta di compassione – parola maldestramente accostata all’eutanasia – ma del diritto sociale ad essere curati anche quando non si può guarire e ci si trova in uno stato irreversibile di disabilità. E’ nell’attenzione al più fragile che si misura il livello di umanità di una società, quindi l’eliminazione del più debole e del sofferente non è “libertà di morire” ma quella di poterci sollevare dall’obbligo della fratellanza.