Era novembre come adesso. Il mondo si trovava alle prese con la guerra fredda invece che con quella alla pandemia. Arrivò come un bagliore nel buio “Dives in Misericordia”, seconda enciclica di papa Giovanni Paolo II. L’umanità paragonata al figliol prodigo della parabola evangelica. Parole che in Italia liberarono dalla cappa plumbea del decennio precedente. Una boccata d’ossigeno e riconciliazione per chiudere l’inferno di violenza ideologizzata negli anni di piombo. I tempi erano sul punto di cambiare. Una svolta antropologica a completare l’enciclica di esordio “Redemptor hominis“. Gesù, mette nero su bianco Karol Wojtyla, è la rivelazione della misericordia del Padre. Il popolo ebraico ne ha fatto l’esperienza nella storia della sua alleanza con Dio. Cristo descrive appunto l’atteggiamento del Padre nella parabola del “figlio prodigo“. Ed è nel mistero pasquale che la misericordia di Dio arriva al culmine. Una misericordia infinita che si estende di generazione in generazione. E così giunge fino ad oggi. La missione della Chiesa è quella di rendere testimonianza alla misericordia di Dio rivelata in Cristo. “La Chiesa condivide con gli uomini del nostro tempo questo profondo e ardente desiderio di una vita giusta sotto ogni aspetto”, evidenzia l’enciclica. Che non omette neppure di sottoporre alla riflessione i vari aspetti di quella giustizia. Come la vita degli uomini e delle società esige. Ne è conferma il campo della dottrina sociale cattolica. Sulle orme di questo insegnamento procede l’educazione. E la formazione delle coscienze umane nello spirito della giustizia. E anche le singole iniziative. Soprattutto nell’ambito dell’apostolato dei laici. Che “in tale spirito si va sviluppando”.“Da lungo tempo nessuno parlava di Dio o di amore. Io credo che molti di coloro che sono andati ad ascoltare il Papa hanno per la prima volta udito un uomo che si indirizzava a loro parlando di fede e non di politica“. Così si espresse Eugène Ionesco, quando Giovanni Paolo II, quarant’anni fa. Fin dal suo governo episcopale in Polonia, Karol Wojtyla aveva mostrato il suo genio pastorale e organizzativo. Aveva ideato nella sua arcidiocesi tre uffici che poi, una volta divenuto Papa, divennero dicasteri vaticani. e cioè Laici, famiglie, operatori sanitari. La capacità è quella di valorizzare e comporre in proficua polifonia le diversità di personalità e sensibilità ecclesiali. Ad essa corrispose la disponibilità a delegare e concedere spazi di manovra e libertà creativa nello svolgimento delle mansioni. Sembrava una caratteristica da “top manager”. In realtà era un profondo radicamento di fede. Dall’enciclica-chiave del pontificato wojtyliano all’approfondimento svolto per la causa di canonizzazione. Il 30 aprile 2011 su L’Osservatore Romano è uscito un editoriale non firmato. Attribuibile quindi al direttore del quotidiano della Santa Sede, Giovanni Maria Vian. Storico del cristianesimo e profondo conoscitore dei meccanismi che caratterizzano il funzionamento della Curia. “La sorpresa più grande che Giovanni Paolo II ci lascia in eredità non è tanto la scoperta di un’intuizione di governo pastorale. Cioè lo stile personalissimo e mai solo protocollare nel ministero di successore di Pietro. Quanto piuttosto la sua capacità di vivere il rapporto con Dio“, sottolineò L’Osservatore Romano. Il focus riguarda il processo canonico sulla sua pratica eroica delle virtù cristiane. E il carattere miracoloso della guarigione dal morbo di Parkinson della suora. Ovvero il miracolo attribuito all’intercessione di Wojtyla. Ne emerge una voce comune. L’unione con Dio in tutta la vita di Karol Wojtyla era tanto normale da sembrare una sua seconda natura. Egli appariva un’anima che aveva cercato di adeguarsi alla santità di Dio. Alla cui presenza ordinariamente respirava e agiva. Esprimeva una tensione verso l’alto cresciuta negli anni. E divenuta impressionante nell’ultimo decennio di pontificato. Quando la malattia inarrestabile aveva progressivamente minato le sue forze fisiche. Mentre nel primo periodo del suo pontificato prevaleva l’ammirazione. Una volta divenuto debole e fragile agli occhi del mondo, Giovanni Paolo II è diventato familiare. Ed è stato percepito da credenti e non credenti come un testimone credibile e umano del Vangelo predicato senza sosta in tutto il mondo. Il riferimento è all’invito ad aprire le porte a Cristo senza paura. Lanciato all’inizio del suo pontificato, è stato poi incarnato nella sofferenza. Affrontata con serena pazienza. Perché in compagnia di Cristo e insieme a milioni di uomini e donne accomunati da analoghi patimenti.“Le parole predicate da Giovanni Paolo II apparivano verificate dalla sua testimonianza semplicemente cristiana“, chiosa L’ Osservatore Romano. Nella massima debolezza fisica, mai nascosta, il successore di Pietro è apparso ancora più amato. Perché ancora più simile al Buon Pastore che dà la sua vita. E così incoraggia a vivere. Era diffusa la convinzione che Wojtyla capisse “la piccola vita quotidiana di quanti faticano a tirare avanti”. Tutta questa gente ai margini dei riflettori cercava di carpire il segreto della forza interiore che sprigionava da Giovanni Paolo II.