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Non esiste un diritto alla morte

Papa Francesco in un messaggio rivolto ai partecipanti al Meeting Regionale Europeo della World Medical Association sulle questioni del cosiddetto “fine-vita”, dopo aver raccomandato di trattare con delicatezza questa complessa problematica, ha detto che “è  moralmente lecito rinunciare all’applicazione di mezzi terapeutici, o sospenderli, quando il loro impiego non corrisponde a quel criterio etico e umanistico che verrà in seguito definito “proporzionalità delle cure”. Questa posizione consente quindi di giungere a una decisione che si qualifica moralmente come rinuncia all’“accanimento terapeutico”.

Ed ha aggiunto: ”Non attivare mezzi sproporzionati o sospenderne l’uso, equivale a evitare l’accanimento terapeutico, cioè compiere un’azione che ha un significato etico completamente diverso dall’eutanasia, che rimane sempre illecita, in quanto si propone di interrompere la vita, procurando la morte. Sappiamo che della malattia non possiamo sempre garantire la guarigione della persona vivente possiamo e dobbiamo sempre prenderci cura: senza abbreviare noi stessi la sua vita, ma anche senza accanirci inutilmente contro la sua morte. In questa linea si muove la medicina palliativa. Essa riveste una grande importanza anche sul piano culturale, impegnandosi a combattere tutto ciò che rende il morire più angoscioso e sofferto, ossia il dolore e la solitudine”. Non esiste un “diritto alla morte” ma un diritto a una morte, dignitosa, umana e umanizzata, se possibile circondata dall’affetto dei propri cari e non da strumentazioni varie.

Il diritto al suicidio assistito reclamerebbe la protezione giuridica di un interesse a ricevere aiuto nel porre fine alla propria esistenza, che è difficile sostenere in base al nostro attuale ordinamento e soprattutto presenta il rischio di una progressiva estensione a casi sempre estremi, finendo per legittimare il suicidio come opzione ordinaria di soluzione dei problemi L’esperienza mostra infatti come, soprattutto in sede giurisprudenziale, sulla base dell’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, diventi difficile evitare l’allargamento dei criteri di accesso a una certa possibilità – in questo caso quella di essere aiutati a porre fine alla propria vita – solo a determinate categorie di soggetti. Il diritto alla sospensione delle cure contiene invece il proprio limite, non potendosi applicare se non ai casi in cui la sopravvivenza dipende da terapie o trattamenti di sostegno vitale che il paziente considera troppo onerosi, ma non può legittimare alcuna richiesta da parte di chi non si trovi in quelle condizioni.

La Corte Costituzionale tratta il suicidio assistito come una terapia, e quindi tutela la libertà di scelta terapeutica da parte del paziente consentendovi l’accesso. La somministrazione di un farmaco letale al solo scopo di procurare la morte non può essere definita un atto terapeutico e quindi una delle possibilità tra cui si ha diritto a scegliere. Lo è invece la decisione di sospendere la ventilazione artificiale, attivando contemporaneamente una sedazione profonda e attendendo il sopraggiungere della morte. Ogni trattamento di sostegno vitale che costituisce un intervento terapeutico può essere sospeso. Per questo la sospensione dei trattamenti terapeutici di sostegno vitale va ritenuta una via più sicura che forme di suicidio assistito, oltre che naturalmente di eutanasia, pur limitate a casi molto particolari. L’esperienza dei Paesi che hanno introdotto nel loro ordinamento questi istituti mostra come, per quanto strette all’inizio, le maglie che consentono di accedervi finiscano inevitabilmente per allargarsi.

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