Categories: Editoriale

Il no alla guerra è nel Dna del cristianesimo

Per la fede, l’etica dell’azione nonviolenta si radica nell’esperienza dell’Essere stesso di Dio, rivelato dal Verbo fattosi carne. I testi biblici lo presentano come «il Vivente», il creatore e difensore della vita, il liberatore degli oppressi, come Amore (1 Gv 4,8.16). Gli esseri umani sono chiamati «figli di Dio». Assumere questa figliolanza è vivere a immagine del Padre, difendendo e promovendo la vita con la forza creativa ed attiva dell’amore, che spezza il determinismo della violenza e dà l’avvio a nuove relazioni umane.

L’etica dell’azione nonviolenta si fonda su ciò che si potrebbe chiamare «l’avventura umana di Dio», cioè il modo che Egli ha scelto per rendersi presente nella nostra storia – l’incarnazione ‒, al fine di trasformarla e renderla feconda, facendola sbocciare in un compimento armonioso: «il regno di Dio», regno di pace e di giustizia. Inaugurato da Gesù Cristo, morto e risuscitato, questo «Regno» è germe da accogliere, da far crescere in unione e comunione con Lui, escludendo ogni violenza dalla sua realizzazione. La proclamazione del Regno è proclamazione dell’alleanza di pace stabilita da Cristo fra il Padre e tutti i popoli, e fra i popoli stessi, vincendo il peccato e l’odio. Questa pace non è semplicemente frutto dell’accordo umano, ma è dono di Dio.

La pace di Dio e la pace del mondo non sono identiche: «Vi lascio ‒ dice Gesù ai suoi discepoli ‒ la pace; vi do la mia pace; non come la dà il mondo io ve la do» (Gv 14,27). Va tuttavia aggiunto subito, a scanso di gravi equivoci, che l’insegnamento di Cristo e la sua stessa azione non escludono affatto dalla condotta cristiana un atteggiamento forte, che in caso di necessità può, o anche deve, realizzarsi con giusta energia. Egli insegna, infatti, che «il Regno dei cieli subisce violenza e sono i violenti che lo rapiscono» (Mt 11,12; cf Lc 16,16). E, nel caso dei venditori nel tempio, interviene con estrema determinazione (cf soprattutto Gv 2,14-17). D’altro lato, gli evangelisti non evitano di ricordare l’«ira» di Cristo (Mc 3,5 e probabilmente anche 1,41) e la sua «indignazione» (Mc 10,14). Né, infine, vi è traccia nel Nuovo Testamento di una condanna del servizio militare. È anche istruttivo l’insegnamento di Giovanni il Battista, che troviamo in Luca: ai militari in esercizio attivo (“strateuomenoi”), che chiedono come convertirsi, egli raccomanda l’onesto svolgimento delle loro mansioni (Lc 3,14), e non di abbandonarle.

La primigenia comunità cristiana è posta di fronte al mondo come comunità modello, proposta vivente e concreta di «società alternativa», non violenta. È chiamata ad essere sale della terra e luce del mondo, vivendo nei fatti la riconciliazione con Dio e con i fratelli, non dominata da strutture violente, quali quelle delle potenze della terra. I discepoli delle comunità neotestamentarie celebrano nell’Eucarestia la morte di Gesù, come il superamento escatologico della violenza, e confessano che Dio, proprio mentre nel Figlio si lascia colpire dalla violenza universale dell’umanità, ne spezza il circolo vizioso. Ma lo stesso Gesù Cristo aveva messo sull’avviso i suoi discepoli sul permanere di tensioni anche gravi, che implicano delle vere lotte (Mt 10,34-36), non la pace ma la spada (cf Lc 12,51-53). Se in situazioni individuali è sempre possibile subire senza controbattere la violenza altrui, per cui è da mettere in conto anche la propria morte, come potrebbe essere ritenuto giusto un tale atteggiamento da parte di chi ha la responsabilità di altre persone, specie se indifese? Il pastore deve dare la vita per le sue pecore, ma certamente non senza prima combattere i lupi.

mons. Mario Toso: