Mons. Carlo Castillo, arcivescovo di Lima in Perù, ha affermato: «Pablo Neruda nel 1924 scrive Venti poesie d’amore e una canzone disperata. Ora nel mondo viviamo una situazione contraria. Si sentono tante “canzoni disperate”, ma esiste anche una poesia d’amore, è il Vangelo che chiede di entrare nel mondo». Prima di lui, il grande Giambattista Vico (23 giugno 1668 –23 gennaio 1744), insigne filosofo moderno, che fu anche poeta, aveva scritto “Il canto di un disperato”, di cui riporto alcuni versi: «Deh! perché da la vita altra beata,/ stanco da tante alte sciagure e rotto,/ misero, fui condotto/ a la presente amara e disperata?/ Poiché, se mai a’ giorni, a’ mesi, agli anni,/ c’ho speso nel dolor, i’ son rivolto,/ veggio esser nato per mia cruda sorte/ solo a fiamme, sospir, lagrime e morte./ E così crudi scempi e acerbi affanni non m’hanno in quel che i’ era ancor disciolto… Mi venne sol da luminosa parte/ del cielo una vaghezza di destare/ a piè de’ faggi e poi de’ lauri a l’ombra/ la bella luce che fa l’alme chiare». Il poeta-filosofo dei corsi e ricorsi della storia, inauguratore della Scienza nuova, rimpiange, in questi versi, il passaggio, da una vita diversa e beata, a quella presente, caratterizzata invece da miseria e sciagure, insomma infelice. Siamo forse nati soltanto per fiamme, sospir, lagrime e morte? Il nostro futuro farà prevalere soltanto l’orizzonte di una vita disperata?
Interrogativi simili ricorrono nelle coscienze di molti credenti, quando ripensano, anche alla luce della recente tornata elettorale, al ruolo dei cattolici in Italia: non soltanto non esiste più una “questione cattolica”, ma la fede sembra – anche nei numeri – irrilevante, in un contesto che ormai si accontenta di algoritmi medico-scientifici, soluzioni finanziarie ed economiche, scelte compiute a suono di maggioranze elettorali. Sono, questi e simili, degli interrogativi non retorici che si fanno particolarmente acuti in un tempo come quello che stiamo vivendo, segnato dalla guerra alle porte dell’Europa e dalle minacce atomiche, dalla mai del tutto sconfitta pandemia da covid-19, e da tante, troppe, situazioni di crisi. Nessun dio ci potrà più “salvare”? E dov’è finita la “voce” dei credenti?
Aristotele racconta di alcuni stranieri che trovano il filosofo Eraclito infreddolito a scaldarsi in cucina; la delusione compare nel volto di quei visitatori che erano giunti ad Efeso dopo un lungo viaggio, carichi di molte attese, sperando di poter incontrare Eraclito in un momento solenne, intento a pensare, a disquisire, a insegnare: «Eraclito, a quanto si racconta, parlò a quegli stranieri che desideravano rendergli visita, ma una volta entrati, si arrestarono sorpresi vedendo che si scaldava presso la stufa di cucina, li invitò ad entrare senza esitare: anche qui — disse — vi sono déi». Commenta Martin Heidegger, segreto abitatore di molta teologia del Novecento: «Che questa storia sia stata narrata e tramandata fino a noi dipende dal fatto che ciò che essa racconta proviene dall’atmosfera di questo pensatore e la caratterizza; anche qui, al forno, in questo luogo abituale, dove ogni cosa e ogni circostanza, ogni fare e ogni pensare è familiare e corrente, ciò solito, persino qui, nell’ambito di ciò che è solito, gli dei sono presenti». Presenti perfino qui tra noi, quando, proprio a causa del Covid-19 e della medicina dell’isolamento, si è fatto evidente il bisogno di fratellanza, di solidarietà, di ripensamento, di generazioni future. Persino quando si accentuano la tendenza divisoria, la solitudine, la crisi delle relazioni, le armi. Ci può mai essere una divina chiave d’accesso, una pista da percorrere per un nuovo annuncio di qualcosa di divino all’afflitta società del mondo contemporaneo?
Il recente incontro dei capi di tutte le religioni mondiali e tradizionali, a cui ha partecipato in Kazakistan anche papa Francesco, ha messo faccia a faccia, come ha detto il Papa, dei fratelli e delle sorelle e, più che delle parole e delle sentenze, ha fatto sentire della musica, conducendoci – come accadde a quei visitatori di Efeso – in un’atmosfera domestica, attraversata dal suono della dombra, uno strumento musicale kazako: «Oggi allo strumento musicale vorrei associare una voce, quella del poeta più celebre del Paese, padre della sua moderna letteratura, l’educatore e compositore spesso raffigurato proprio insieme alla dombra». Così ancora papa Francesco: «Abai (1845-1904), come popolarmente è chiamato, ci ha lasciato scritti impregnati di religiosità, nei quali traspare la migliore anima di questo popolo: una saggezza armoniosa, che desidera la pace e la ricerca interrogandosi con umiltà, anelando a una sapienza degna dell’uomo, mai chiusa in visioni ristrette e anguste, ma disposta a lasciarsi ispirare da molteplici esperienze. Abai ci provoca con un interrogativo intramontabile: “Qual è la bellezza della vita, se non si va in profondità?” (Poesia, 1898)».
Si chiami Abai o Leopardi, Neruda o Vico, Aristotele, Eraclito o Heidegger, il vero credente non può ridursi ad essere “visitatore deluso”; perciò s’interroga e c’interroga da capo sul senso stesso dell’esistere: «Ove tende questo vagar mio breve?» (G. Leopardi, Canto notturno di un pastore errante dell’Asia)». Il Vangelo risponde alla stessa domanda, ma lo fa con il cantico comparso sulle labbra della ragazza di Nazareth: «Magnificat anima mea Dominum/ Et exsultavit spiritus meus/ in Deo Salutari meo» (Lc 1,46). Un Salvatore che fa cantare il cuore e le labbra di Maria, non è una mano di pittura sul male e sul niente, quasi per far finta che non esista lo scenario di disperazione. O si annuncia il Sole della vita o si annuncia la morte, quindi. O si asseconda la crescita del buon grano generato dal Vangelo in Persona, o il Nemico semina la zizzania che arriverà fino alla quotidianità della vita, una presenza impressionante. Papa Francesco in Kazakistan ha citato pure un bel proverbio popolare: «Se incontri qualcuno, cerca di renderlo felice, forse è l’ultima volta che lo vedi». Nella steppa sterminata un incontro potrebbe sempre essere l’ultimo e, in agguato, potrebbero esserci i serpenti della guerra, della malvagità e del peccato. E il credente, come la sposa del Cantico dei cantici, annunzia questo Gesù che dona l’Amore in Persona: «…Ecco la voce del mio diletto! Ecco, egli viene saltando sui monti, balzando sui colli./ Il mio diletto è simile a una gazzella o ad un cerbiatto. Eccolo, egli sta dietro al nostro muro,/ guarda dalle finestre, lancia occhiate attraverso l’inferriata./ Il mio diletto mi ha parlato e mi ha detto: «Alzati, amica mia, mia bella, e vieni!/ Poiché, ecco, l’inverno è passato, la pioggia è cessata, se n’è andata» (Ct 2,8-3,5). Nella sua raccolta di Lettere, il pensatore “modernista” Ernesto Buonaiuti, come scrisse, «ha voluto fare semplicemente una specie di bilancio, registrare con qualche cura lo stato attuale della Chiesa in Italia». La sua raccolta aveva la seguente Dedica: «Ai fratelli dispersi nel mondo, noti ed ignoti, tutti avvinti nella medesima speranza, queste lettere che vogliono descrivere una decisiva ora di transizione, sono dedicate». Nell’attuale tempo di transizione, la speranza, anche se fosse a prima vista illusoria, è la grande leva cristiana in grado di muovere le società ad operare e le persone a cambiare se stesse, trasformando il tessuto umano e ambientale, fermentando i luoghi ove si decide della verità dell’umano.