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Movimenti pro-vita nei consultori: facciamo chiarezza

A chi dà fastidio se nasce un bambino in più? Chi viene offeso se si offre aiuto ad una donna che sta vivendo una gravidanza difficile? Per quale motivo non si possono fornire sostegno economico e psicologico ad una donna, affinché sia veramente libera di poter scegliere per la vita e non per la morte?

Questi interrogativi vengono spontanei, alla luce delle polemiche strumentali sorte intorno all’emendamento della maggioranza di governo sulla missione 6.1 del Pnrr, quella che istituisce le case della comunità, in cui confluiranno tutti i servizi socio sanitari di prossimità per la persona. “Ci saranno i pro life a sbattere in faccia alle ragazze le foto dei feti distrutti!”, è quanto sentiamo dire da settimane, ascoltando gli strali lanciati da alcune frange politicizzate e ideologizzate che si dicono convinte che l’emendamento in questione è teso a far diventare i consultori un’anticamera delle sedi dei movimenti pro-vita.

Ovviamente le cose non stanno così ma bisogna fare chiarezza per sgombrare il campo da qualsiasi speculazione politica. L’emendamento in questione non fa altro che collegare l’istituzione di queste case della comunità, dove i cittadini entreranno “in contatto con il sistema di assistenza sanitaria, sociosanitaria e sociale”, con quanto già previsto dall’articolo 2 della legge 194 sull’interruzione di gravidanza, ovvero che i consultori collaborino con associazioni e volontari impegnati nel sostegno alla maternità.

Insomma, come ha fatto notare più di un esperto in materia intellettualmente onesto, l’emendamento della maggioranza non fa altro che ribadire uno dei principi cardine della 194, cioè che siano rimosse tutte le cause economiche e sociali che determinano la scelta di interrompere la gravidanza.

Per dare questo supporto alle donne che chiedono aiuto o che vivono con gran dolore la scelta di abortire da oltre 40 anni i volontari offrono ogni tipo di supporto su segnalazione dei consultori. Il richiamo alla norma di legge fotografa infatti quello che già succede e che continuerà accadere anche nelle case della comunità; nello specifico nessun volontario ha accesso diretto ai consultori pubblici, dove le ginecologhe e gli psicologi ricevono le ragazze che vivono gravidanze complicate, ma sono gli operatori sanitari e sociali dei consultori che indicano alle ragazze che chiedono aiuto a quali centri per la vita potersi rivolgere. Quindi, la donna che manifesta dolorose perplessità riguardo una scelta non facile, se incontra le persone giuste e sensibili, viene indirizzata al sede più vicina di una delle tante associazioni che può sostenere la madre e il nascituro anche per diversi anni dopo il parto, tramite sostegno economico, abitativo e lavorativo.

Tutto questo al momento viene fatto con discrezione, senza colpevolizzare alcuna donna, senza mostrare foto di aborti e miniature di feti come ha scritto, in questi giorni, qualche giornale in cattiva fede. I volontari del Movimento per la vita italiano, fondato dal giudice Carlo Casini, o quelli del servizio per la vita nascente della Comunità Giovanni XXIII, fondata dal Servo di Dio don Oreste Benzi, dall’introduzione della legge sull’aborto, negli anni Settanta, ad oggi hanno accompagnato centinaia di migliaia di donne e salvato altrettanti nascituri. Se ci sono madri che si sono aperte alla vita e ragazzi e ragazze che arricchiscono la società italiana lo dobbiamo ai tanti che si sono impegnati, fuori dalla luce dei riflettori, per offrire una concreta alternativa alla cultura della morte. Solo tendendo una mano, solo mostrando la bellezza di farcela insieme si può mettere una donna difronte una scelta veramente libera. Torna quindi la domanda: a chi e perché da tanto fastidio questo impegno per la vita?

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