Diamo tempo al tempo. Per ora siamo ancora nella fase dei titoli del palinsesto. È tuttavia un segno interessante che si cominci a pensare ad un minimo di fiscalità comune; o meglio, a ragionare insieme di questi problemi. La notizia è questa, ma si ferma nell’anticamera della “stanza dei bottoni”. I leader dei sette paesi più industrializzati hanno rilasciato una dichiarazione comune in cui si impegnano a promuovere una riforma delle norme internazionali allo scopo di garantire che le imprese multinazionali paghino un’aliquota effettiva pari almeno al 15 per cento sui loro profitti globali. Il gettito aggiuntivo rispetto a quello attuale dovrebbe essere riscosso, almeno in parte, dai paesi nei quali le grandi imprese realizzano il fatturato, anche se sono prive – in quelle giurisdizioni – di stabili organizzazioni.
In un editoriale pubblicato sul sito dell’Istituto Bruno Leoni (IBL) vengono sottolineate almeno tre questioni concrete che consentirebbero di valutare l’esito della manovra, se mai si concretizzerà. La prima è la determinazione delle basi imponibili. Tutto dipende da come viene calcolato il reddito su cui l’aliquota si applica. Già da tempo, la concorrenza fiscale tra paesi si gioca molto più su questo fronte che sul ribasso delle aliquote nominali: quindi, le conseguenze concrete dell’accordo dipendono – prosegue IBL – quasi interamente da sé e come si interverrà su questo aspetto.
Il secondo tema riguarda le misure “transitorie” adottate in molte giurisdizioni per contrastare il “profit shifting” delle multinazionali, specie in campo digitale. E’ il caso della webtax italiana e dei provvedimenti analoghi in altri Stati europei. L’accordo sembra prevedere l’eliminazione di questi balzelli: quale sarà l’esito complessivo, è domanda empirica a cui non si è in grado di rispondere in questo momento.
Infine, bisogna chiedersi se e quali cambiamenti un eventuale accordo imprimerà sul disegno complessivo dei sistemi tributari. Oggi l’aliquota media sul reddito d’impresa nei paesi Ocse è del 24 per cento. Nelle giurisdizioni a più bassa tassazione, come l’Irlanda, l’aliquota è del 12,5 per cento, quindi non molto distante dal 15. Negli Stati Uniti, il presidente Joe Biden vorrebbe alzarla dal 21 al 28 per cento: si tratterebbe di un intervento in assoluta controtendenza, visto che dagli anni Ottanta le imposte sul reddito d’impresa sono continuamente calate. Per esempio, in Italia – ricorda IBL – si è passati dal 32,5 % dei primi anni Duemila all’attuale 24 %. Questo è stato principalmente conseguenza della deprecata concorrenza fiscale: ma, all’atto pratico, ha favorito anzitutto le piccole e medie imprese italiane che, per la loro dimensione o i loro settori merceologici, non hanno la possibilità di delocalizzare.
Arriviamo così alla conclusione: il compromesso del G7 finirà per attenuare, o eliminare, i vincoli che finora hanno limitato la voracità fiscale degli Stati? Altrimenti, si tratterà, forse, di un’opportunità per fare ordine nel sistema tributario internazionale. L’IBL non nasconde il timore che, col pretesto di far pagare le tasse alle perfide multinazionali, si arrivi, alla fine, a mandare il conto soprattutto alle pmi.
Anche Franco Debenedetti, con un articolo su Il Sole 24 Ore, è intervenuto sulla minimum tax, facendo notare che con la tassa globale mondiale le imprese non avrebbero più alcun vantaggio a giocare sui prezzi di trasferimento tra proprie filiali per formare l’utile in un Paese con un regime di tassazione favorevole, come Olanda, Irlanda, Lussemburgo. Se devono pagare comunque il 21% (o il 15%) anche sugli utili parcheggiati nei pochi autentici paradisi fiscali rimasti, tipo le Cayman, le grandi multinazionali americane potrebbero preferire di rimpatriarli pagando il 28% (che potrebbe diventare il 25%). Però, secondo Debenedetti ci sono alcuni caveat da non sottovalutare. Innanzi tutto perché prendere di mira solo le multinazionali del Big Tech e non anche quelle di altri settori? Inoltre, ogni riduzione della concorrenza ha effetti negativi sull’efficienza e la produttività, e questo vale anche per la concorrenza fiscale. Se un Paese – sostiene Debenedetti – ha una pubblica amministrazione efficiente, e offre vantaggi a investimenti stranieri, perchè non deve poterlo fare?
Il peso della fiscalità non deve essere considerato comunque come un artificio scorretto per attirare investitori. Potrebbe essere anche la conseguenza di un sistema Paese dotato di un’organizzazione amministrativa, economica e sociale in grado di assicurare servizi di qualità a costi inferiori. Se è considerato lecito valorizzare – si chiede Debenedetti – le proprie bellezze naturali e artistiche spiagge e musei, perchè non si può farlo con una tassazione favorevole a imprese innovative? In sostanza –ci sentiamo di concludere – è necessario individuare con equilibrio l’introduzione di una minimum tax, per evitare di agevolare, nei fatti, le economie meno competitive.