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Migranti climatici: chi sono e perché rischiano di aumentare

I cambiamenti climatici sono ormai innegabili. E le conseguenze geopolitiche e sociali degli eventi legati a questi cambiamenti, come le migrazioni, sono una realtà. Eppure sembra esserci una certa ritrosia nel riconoscere e nell’identificare i migranti climatici. Specie quando provengono da regioni dove povertà, violenze e conflitti sono diffusi.

Nel 2007, gli Stati membri delle Nazioni Unite chiesero all’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni, IOM, di analizzare il rapporto esistente tra migrazioni, ambiente e cambiamenti climatici. A cominciare dal definire i “migranti ambientali”. Da allora molto è stato fatto. Oggi, la Divisione Migrazione, Ambiente e Cambiamenti Climatici che opera all’interno del Dipartimento di Gestione delle Migrazioni dell’IOM supervisiona, sostiene e coordina le linee guida generali.

I dati più recenti parlano di un numero sempre maggiore di persone costrette a migrare a causa delle conseguenze dei cambiamenti climatici e delle catastrofi. Nel 2022, l’84% dei richiedenti asilo proveniva da Paesi vulnerabili dal punto di vista climatico. Una percentuale molto maggiore rispetto a quella degli anni precedenti. A differenza dei “rifugiati” o delle persone che scappano da persecuzioni di vario genere, quasi sempre i migranti ambientali non possono e non vogliono tornare indietro: nel 2020, solo l’1% di loro è tornato a casa.

Gli effetti dei cambiamenti climatici non sono gli stessi per tutti: le fasce della popolazione più colpite sono i più piccoli, le ragazze e i bambini. E poi donne e anziani. Notevoli le differenze anche dal punto di vista del reddito: sono i più poveri quelli costretti a migrare per cause ambientali. Per l’UNHCR, le aree più povere che ospitano popolazioni sfollate e apolidi spesso “cadono attraverso le crepe” nei piani e nei programmi nazionali di sviluppo e adattamento. Questo aumenta disuguaglianze e criticità.

L’UNHCR ha identificato 22 Paesi che destano particolare preoccupazione per la accresciuta vulnerabilità ai cambiamenti climatici e a causa dell’elevato numero di sfollati forzati che vi risiedono. “Entro il 2030, un numero crescente di sfollati forzati e apolidi che fuggono da crisi climatiche e/o che vivono in paesi vulnerabili al clima troveranno soluzioni, saranno protetti e resilienti agli impatti del cambiamento climatico e avranno i mezzi per vivere una vita autosufficiente”.

Secondo l’IOM, per far fronte alle sfide della mobilità umana associate a fattori ambientali e a cambiamenti climatici, è necessario intensificare gli sforzi a tutti i livelli: nazionale, regionale e internazionale. Un aspetto che sembra non essere ben chiaro ai governi dei Paesi più sviluppati. Si sono appena conclusi i lavori della COP28, ma i risultati sono deludenti: il rapporto finale è pieno di promesse a lungo termine, di obiettivi da raggiungere nei prossimi decenni. Poche, invece, le misure a breve termine che i governi si sono impegnati ad adottare.

Non sorprende: basti pensare che, negli ultimi due anni, la direzione dei lavori delle COP è stata affidata a Paesi grandi produttori di combustibili fossili, i maggiori responsabili delle emissioni di CO2. E nel 2024 la situazione non cambierà: a gestire i lavori della COP29 sarà l’Azerbaijan, un altro Paese, dopo Egitto e Emirati Arabi Uniti, dove i combustibili fossili (considerati i maggiori responsabili delle emissioni di CO2) rivestono un ruolo primario sotto il profilo economico.

La definizione più diffusa (ma non uniformemente accettata) di migrante ambientale è “persona o gruppo di persone che, prevalentemente a causa di cambiamenti improvvisi o progressivi dell’ambiente che incidono negativamente sulla loro vita o sulle loro condizioni di vita, sono costretti a lasciare i loro luoghi di residenza abituale, o scelgono di farlo, temporaneamente o permanentemente, e che si spostano all’interno o all’esterno del loro paese di origine o di residenza abituale” (IOM, 2019).

Vi rientrano quanti hanno dovuto lasciare la propria casa per un’emergenza come un terremoto o un’alluvione. Ma anche altri due gruppi di persone ai quali raramente si pensa. Le persone colpite da cambiamenti climatici lenti ma irreversibili: in alcune aree del pianeta si è passati dalla condizione di siccità a quella di aridità. In Africa, in Asia, ma anche in Italia: parte delle regioni meridionali sono a rischio. E poi i migranti ambientali che restano all’interno dei confini di uno Stato. Spesso sono esclusi dalle statistiche ufficiali. Eppure sono tantissimi, decine di milioni ogni anno. Secondo gli ultimi dati del Migration Data Portal dell’IOM, nel 2022, il 53% dei nuovi sfollati interni si è spostato per cause ambientali (IDMC, 2023). Complessivamente, il 98% dei 32,6 milioni di nuovi sfollati interni lo ha fatto a causa di condizioni meteorologiche estreme come tempeste, inondazioni e siccità.

I Paesi più colpiti sono stati il Pakistan (con 8,2 milioni di sfollati ambientali interni), le Filippine (5,5 milioni), la Cina (3,6 milioni), l’India (2,5 milioni) e la Nigeria (2,4 milioni). Particolarmente gravi gli effetti delle tempeste: in Pakistan, le inondazioni monsoniche hanno causato il 25% degli sfollamenti interni a causa di disastri. Gravi anche le conseguenze dei periodi di siccità: quando la carenza di risorse idriche diventa troppo lunga, a molti non resta altro da fare che spostarsi altrove. Nel 2022, la Somalia ha dovuto fronteggiare la peggiore siccità degli ultimi 40 anni. E oltre un milione di persone sono state costrette a migrare per sopravvivere.

Anche le emergenze “secondarie” hanno effetti rilevanti sulle migrazioni ambientali. A volte, le conseguenze di un evento climatico estremo si manifestano nel medio-lungo periodo. Ad esempio, non è raro che i flussi migratori siano influenzati dalle poche prospettive occupazionali dopo un disastro o dall’accessibilità di un mercato che non esiste più. E quasi sempre, per i migranti non si tratta di scegliere: è una questione di sopravvivenza.

Le previsioni per i prossimi anni sono tutt’altro che rosee. Cambiamenti climatici ed eventi estremi sempre più violenti e frequenti faranno crescere il numero dei profughi ambientali. Secondo il rapporto dell’Intergovernmental Panel on Climate Change delle Nazioni Unite pubblicato quest’anno, nei prossimi 30 anni, ben 143 milioni di persone saranno costrette a lasciare la propria casa a causa dell’innalzamento dei mari, della siccità, delle temperature elevate e di altre catastrofi climatiche.

Stando ai dati del rapporto Groundswell della Banca Mondiale, se non verranno adottate misure urgenti per ridurre le emissioni globali di gas serra, entro il 2050 in sei regioni del mondo (Africa subsahariana, Asia meridionale, America Latina, Asia orientale e Pacifico, Nord Africa, Europa orientale e Asia centrale) i cambiamenti climatici potrebbero costringere 216 milioni di persone a spostarsi all’interno del proprio Paese. Entro il 2050, più di un miliardo di persone potrebbe essere esposto a rischi climatici (in particolare lungo le coste). Questo porterà inevitabilmente decine o centinaia di milioni di persone a lasciare la propria casa. E diventare migranti ambientali.

I grandi flussi migratori sia interni che esterni hanno conseguenze geopolitiche elevatissime. Ma molti governi fingono di non accorgersene. Anche nell’Unione Europea si è parlato del problema dei migranti ambientali. Nel 2020, lo studio della Commissione LIBE dal titolo Cambiamenti Climatici e Migrazione ha ribadito che il “punto di partenza deve essere il bisogno di protezione”. Esistono “una serie di situazioni ad alto impatto, incluso ma non limitato al cambiamento ambientale, che hanno la capacità di influenzare i fattori migratori o addirittura di allontanare con la forza le persone dai luoghi di residenza abituali o dai paesi di origine o, in modo correlato, di ostacolarne il ritorno”.

Vengono citati i dati dell’Organizzazione meteorologica mondiale (OMM) sullo stato del clima globale che suggeriscono “un ritmo accelerato dei cambiamenti climatici” con “concentrazioni di gas serra nell’atmosfera [che] hanno raggiunto livelli record”. Secondo i ricercatori sarebbero sei i cambiamenti ambientali legati al clima che hanno effetto sulle migrazioni ambientali: innalzamento del livello del mare (con rischio maggiore di inondazioni costiere, erosione e salinizzazione delle zone basse dei terreni agricoli); aumento dell’intensità dei cicloni tropicali e delle tempeste; cambiamenti nei regimi delle precipitazioni (che influiscono sulla produttività agricola); cambiamento della chimica atmosferica che incide sulla produttività delle colture e sulla produttività degli ecosistemi marini e costieri; scioglimento dei ghiacciai montani che incide sull’esposizione delle regioni montane ai pericoli.

Se ne è parlato. Ma non sono molte le misure concrete che sono state attuate. Nonostante i numeri, gli studi, gli allarmi da parte di enti come l’UNHCR, l’UNDRR o l’IOM, i governi si ostinano a considerare i flussi migratori come un fenomeno “straordinario”, dovuto a guerre, persecuzioni, problemi economici, ma non ai cambiamenti climatici. Basta leggere il pacchetto appena approvato dai leader europei. Contiene cinque regolamenti (dovranno essere approvati uno per uno in via definitiva dal Parlamento e dal Consiglio). Scorrendoli sembra che si sia pensato più agli aspetti operativi che alle cause del fenomeno migratorio.

Grande attenzione è stata dedicata ai controlli all’ingresso dei migranti nel territorio comunitario; alla creazione di centri di accoglienza vicini alle frontiere esterne dell’Unione per rimpatriare rapidamente coloro che non hanno diritto all’asilo; e alla creazione di un meccanismo di “solidarietà obbligatorio” non per i migranti, ma per permettere agli Stati membri che non vogliono o non possono accogliere migranti di pagare per la gestione dei migranti in altri paesi. Quasi niente è stato detto sulle cause che spingono i migranti a lasciare la propria casa. Nel 2015-2016 l’impennata degli arrivi colse i Paesi UE impreparati a gestire questo fenomeno. Si propose il ricollocamento dei migranti tra Paesi dell’UE pur di aiutare i Paesi di primo ingresso.

Ma l’accordo venne rispettato “a pelle di leopardo”: molti Paesi si astennero. Nel 2020, la Commissione europea propose un nuovo piano. I fatti dimostrano che anche questo non ha avuto successo. Ora si parla di nuove norme e regole per cercare di arginare un fenomeno sociale che si finge di non conoscere. C’è anche chi si ostina a proporre di mandarli in Ruanda o in  Albania. Anche a costo di violare un gran numero di trattati internazionali e di norme nazionali.

Visto il destino riservato ai rifugiati (quelli definiti nella Convenzione di Ginevra) non sorprende che in molti Paesi i profughi ambientali non siano riconosciuti tali. Problemi che, col passare degli anni e con l’intensificarsi degli effetti legati ai cambiamenti climatici, avranno dimensioni sempre più rilevanti.

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