Israele attacca la periferia sud di Beirut per vendicare la morte di un gruppo di bambini drusi, israeliani per caso (e per annessione: nel 1981, con un atto unilaterale deciso approfittando di una fase particolarmente acuta della Guerra Fredda). I drusi sono arabi, anche se molto caratterizzati dal punto di vista religioso e culturale (per non dire politico: nella guerra civile libanese combattevano in perfetta autonomia da sciiti e sunniti). L’80 percento di loro si rifiuta di prendere la cittadinanza israeliana.
Contemporaneamente il governo israeliano compie la vendetta su Hamas: in Iran un missile ne elimina fisicamente il capo, Ismail Haniyeh. Era il principale responsabile di quell’orribile scempio che furono i pogrom del 7 ottobre scorso, 1.200 morti innocenti, cui Netanyahu ha risposto con la guerra di Gaza, che di morti ne ha fatti 39.000.
Adesso, ed è la seconda volta in poche settimane, siamo tutti con il fiato sospeso per sapere se l’Iran darà seguito alle sue promesse di vendetta. Se così, i pezzi della grande guerra mediorientale in corso dal 2003 andranno a saldarsi, e non ci sarà più un paese sicuro dentro e fuori l’area. Sarebbe la peggior crisi della regione dal 1918, anno in cui i turchi furono costretti ad abbandonare il loro impero. Non a caso Erdogan, con il fiuto e l’approssimazione tipica dei capipopolo, ha prospettato addirittura l’invasione di Israele, sentendosi promettere che finirà a sua volta come Saddam Hussein.
L’aver toccato i confini stabiliti dopo la Grande Guerra è la grande responsabilità dell’amministrazione americana di George W. Bush, quando per l’appunto invase l’Iraq senza un piano e senza un’idea. Oggi l’America assiste passiva agli eventi, paralizzata da una campagna elettorale piena di colpi di scena, con Netanyahu che sembra già aver stretto gli accordi necessari con il cavallo su cui punta. Grande rischio il suo, perché da qua a novembre può cambiare tutto e poi cambiare ancora e poi cambiare di nuovo.
Intanto, però, l’incertezza regna sovrana e questa è la condizione peggiore per tutti. L’uccisione di Haniyeh, paradossalmente, potrebbe fornire a Netanyahu quella libbra di carne necessaria a proclamare la chiusura della rappresaglia per il 7 ottobre. La testa del serpente, può sostenere il premier israeliano, è stata finalmente schiacciata. Ora si torni a casa: Gaza è impossibile da tenere sotto controllo e noi già una volta abbiamo dovuto lasciarla.
Possibile che questo sia il suo piano, ma se così si scontrerebbe con due elementi, due Balrog emersi dagli abissi. Il primo è il suo destino politico: finita la guerra, riprenderebbero le polemiche sulla sua mancata tutela dei ragazzi israeliani uccisi e rapiti da Hamas. Il secondo è lo spettro del conflitto generale, perché bloccare i mastini della guerra che lui stesso ha sciolto è qualcosa al di là della capacità dei singoli.
Netanyahu ha scatenato il conflitto di Gaza per sopravvivere politicamente ma, così facendo, ha posto le basi per essere sopraffatto dagli eventi non appena questo terminerà. Ecco perché anche un gruppo di innocenti bambini drusi sterminati mentre giocano a pallone può essere motivo sufficiente per alimentare la tensione, e poco importa se in buona parte le loro famiglie non sono, non si sentono, non intendono essere israeliane.