Con la pubblicazione del volume “Made in Immigritaly. Terre, colture, culture”, rovesciamo finalmente una narrazione dominante: quella che vorrebbe ridurre il fenomeno migratorio a costante emergenza sociale o a necessarie braccia da lavoro da confinare alla subalternità. Il riferimento è alla ricerca, che abbiamo presentato al CNEL questa settimana, in presenza di rappresentanti del governo e del parlamento, ricercatori, sindacalisti, che per la prima volta fa luce sui lavoratori immigrati nell’agroalimentare italiano. Commissionata dalla FAI-CISL, la ricerca è stata realizzata dal Centro Studi Confronti ed è curata da Maurizio Ambrosini, Rando Devole, Paolo Naso, Claudio Paravati.
I dati, le analisi e le storie raccolte restituiscono uno spaccato di vita quotidiana di quei lavoratori e lavoratici di origine straniera che ogni giorno contribuiscono alla crescita del nostro Pil, con un agroalimentare italiano che nel 2023 ha superato 600 miliardi di fatturato e 64 miliardi di export.
Ai ricercatori avevamo chiesto, fin dall’inizio del progetto, di realizzare una ricerca in grado di narrare e spiegare i modi in cui il lavoro immigrato viene gestito in contesti specifici e analizzare i diversi profili del fenomeno migratorio, inclusi i meccanismi virtuosi di cooperazione e integrazione locale che si stanno realizzando sui luoghi di lavoro. Una ricerca, insomma, che andasse al di là degli studi generici realizzati finora e oltre le ricerche concentrate sul solo tema del caporalato, che pure viene evidenziata rappresentando una innegabile piaga da contrastare con tutti gli strumenti possibili.
Il risultato è stato più che soddisfacente, ed è racchiuso in questo volume, edito da Agrilavoro e Com Nuovi Tempi, che con oltre 500 pagine fornisce strumenti fondamentali per comprendere la realtà che ci circonda. I ricercatori hanno raccolto dati, analisi e proposte e approfondito anche nove casi studio territoriali. Emerge chiaramente che dal Parmigiano Reggiano prodotto da lavoratori indiani, passando per le campagne agrumicole o del pomodoro nel Sud Italia o per il comparto delle carni, non c’è filiera del made in Italy agroalimentare in cui il lavoro migrante non assuma un ruolo rilevante o insostituibile.
Va condiviso quanto affermato dal Presidente del CNEL, Renato Brunetta, che apprezzando la nostra iniziativa ha sottolineato: “Il settore agroalimentare italiano è ricco di eccellenze di cui andiamo fieri, ma dietro l’eccellenza del made in Italy c’è la cattiva coscienza sul ruolo degli immigrati: una forza lavoro invisibile non è un fattore di crescita, né civile né economica, l’opacità non serve a nessuno”.
Questa visione emerge anche in maniera dettagliata nel nostro report, che con metodo e rigore scientifico raccoglie molti dati utili. Gli immigrati che lavorano regolarmente in Italia sono 2,4 milioni circa, più del 10% degli occupati. In agricoltura, però, il loro contributo è più rilevante di questo valore medio: gli stranieri occupati nel settore sono quasi 362.000, e coprono il 31,7% delle giornate di lavoro registrate. Le principali provenienze nazionali sono Romania, Marocco, India, Albania e Senegal. Cresce l’occupazione degli immigrati subsahariani nel settore, ma non al punto da avvalorare la tesi di una sostituzione delle componenti insediate da più tempo.
Queste sono solo alcune dinamiche, tra quelle osservate, che ci aiutano a monitorare i cambiamenti in corso. Di certo l’agroalimentare si è affermato come settore con una presenza strutturale della componente migratoria, con tante buone pratiche territoriali di occupazione e inclusione. Poi, accanto a tanti aspetti di emancipazione e realizzazione nell’agroindustria nazionale, per molti immigrati rimane vivo lo spettro dell’invisibilità: “Il passaggio dalla cittadinanza economica, anche dove è stata faticosamente conquistata, a una cittadinanza sociale e politica compiuta – scrive nel report Maurizio Ambrosini, docente all’Università di Milano – rimane ancora irrisolto”. Inoltre rimane forte la contraddizione di un Paese in cui, da un lato, si dibatte sull’immigrazione come invasione e rischio sociale e, dall’altro, si riconosce un sempre maggiore bisogno di manodopera immigrata.
Ma questa ricerca non si limita a fotografare la realtà. Abbiamo collaborato affinché emergessero proposte e strumenti di cambiamento positivo, evitando di scadere in sterili rivendicazioni o in un retorico attacco a istituzioni e politica. La sfida è rendere l’agroalimentare più attrattivo, e per farlo vanno incrementate le protezioni sociali, le competenze, i redditi, e vanno valorizzate la bilateralità e la contrattazione, soprattutto quella provinciale, che in agricoltura è una specificità positiva a favore di lavoratori, imprese e territori. Questa naturalmente è una sfida che chiama in causa soprattutto le parti sociali.
Molte cose poi spettano alla politica. Penso ad esempio al tema della previdenza, per consentire di ricongiungere i propri contributi con quelli maturati nel Paese di origine, dopo una vita di lavoro, per una pensione dignitosa. Ma penso anche a tanti aspetti normativi. La stessa ultima regolarizzazione, che noi stessi abbiamo per primi sollecitato, è stata indispensabile ma non certo sufficiente a risolvere alcuni vizi atavici del nostro modello migratorio, che in più occasioni ci siamo permessi di definire vero e proprio “caporalato di Stato”. Bisogna costruire un percorso concreto di superamento della Legge Bossi-Fini, della politica dei flussi e delle modalità da “click-day”, che oltre a scontentare in tanti casi sia lavoratori che imprenditori non manca di favorire modalità truffaldine e speculazioni sulla pelle dei più vulnerabili.
I modelli positivi non mancano, e in parte emergono anche dalla fotografia scattata dalla ricerca “Made in Immigritaly”. Pensiamo ai corridoi umanitari, all’accoglienza diffusa, a tutti quei progetti partecipati che, agendo su punti chiave come alloggi, trasporti, elenchi dei lavoratori, riescono a contribuire a un sano governo del lavoro stagionale. E pensiamo a quanto affermato dal Segretario Generale della CISL, Luigi Sbarra, che insieme a noi ha ribadito come le regolarizzazioni, la fissazione di quote d’ingresso legali, le misure come quelle contenute nel Decreto Cutro, siano passi significativi ma insufficienti: “Va costruita una Dublino II, con un sistema comune europeo che garantisca accoglienza, sicurezza e integrazione, con canali di ingresso regolari che permettano, anche attraverso la bilateralità, di incrociare domanda e offerta di lavoro permettendo alle imprese di disporre del necessario fabbisogno di lavoratori ben formati e qualificati, contrattualizzati e retribuiti”. Tutti aspetti che abbiamo posto più volte anche al Ministro Lollobrigida, che intervevendo al CNEL al nostro evento ha riconosciuto la necessità di “mettere in condizione le persone che vengono qui di essere trattate con dignità, con pari reddito rispetto agli altri, avendo le stesse opportunità”.
Il progresso si costruisce dunque insieme, rafforzando il dialogo sociale e rendendo protagoniste le rappresentanze sociali e il mondo del lavoro. Dobbiamo riconoscere dignità a tutti i migranti che producono il nostro cibo quotidiano e abbiamo tutti gli strumenti per farlo, nella consapevolezza, come affermato più volte da Papa Francesco, che accogliere vite umane, proteggerle, promuoverle e integrarle, è una “responsabilità a lungo termine” che chiama in causa tutti noi, qualunque sia il ruolo che ricopriamo.
Di Onofrio Rota, Segretario Generale FAI-CISL