Di Giuseppe non si conserva nel Vangelo neppure una parola ma lo si appella “giusto”, ed è presentato come un uomo che fa e non dice. Il buon senso ci fa dire che è importante parlare perché un fatto che non ha parole che lo spieghi si presta a tanti significati, molti persino fuorvianti che traviano la verità. Ma non è questo il criterio che lo guida, né argomentare le sue scelte farebbe di lui una persona giusta nel senso che il Vangelo intende. Giuseppe parla attraverso le sue azioni: vorrebbe licenziare in segreto la sua sposa ma poi la prende con sé nonostante non sia il padre del bambino che Maria porta in grembo; va a Bethlemme per il censimento della sua tribù e improvvisamente parte con la madre e il bambino in un paese straniero perché la vita del bambino è in pericolo; poi torna a Nazareth e addestra il Figlio di Dio all’arte della carpenteria; poi decide di iniziare alla vita della Comunità questo figlio precoce e lo conduce al Tempio per il Mitzvah ma lo perde e lo rintraccia con sua madre tre giorni dopo, sta zitto anche quando finalmente lo trova e si lascia raggiungere dalle sue parole: “non sapevate che devo essere nelle cose del Padre mio?”. Giuseppe e Maria sono quelli che più di tutti possono intendere queste cose, essere nelle “cose del Padre”. Nel segreto delle “cose del Padre” tanti avvenimenti sono accaduti nella loro vita di coppia, stravolgendo i loro progetti e aprendo strade su cui, entrambi, si sono lasciati docilmente condurre.
Giuseppe è uno che agisce e le ragioni del suo agire affondano nei suoi sogni. Come il suo antenato biblico, Giuseppe figlio di Giacobbe (anche lui), dà retta ai sogni e gli è data una sapienza più alta perché vede più lontano. E’ quello il luogo dove l’Angelo del Signore gli parla, gli spiega, gli rivela, gli comanda. E lui obbedisce, perciò è detto giusto. Tuttavia credere ai sogni ha creato non pochi problemi a Giuseppe di Giacobbe, deriso e perseguitato dai fratelli; così per il Nostro, credere ai sogni non si è trattato di un gioco.
Tempo fa ho letto un libro di Silvana De Mari, Giuseppe figlio di Giacobbe, dove l’autrice dava voce alle certezze e ai dubbi di Giuseppe lo sposo di Maria, e ha tentato di sondare il mistero della sua scelta, quella per cui è chiamato “giusto”. Ha tentato una via molto diversa dalle normali narrazioni, una possibile storia che non avevo mai ascoltato. Alla scuola dove si disquisiva per giorni su un verso di Isaia, difficilmente insegnavano cose pratiche… cosa fare se la tua sposa ti dice che è incinta del Santo Spirito. Cosa fare se incontri un angelo di notte nel deserto, mentre sei senz’acqua… Silvana ci racconta di un uomo che, pur di salvare la sua sposa perché la ama e perché la ritiene degna di fede, di fronte all’evidenza di un figlio in arrivo non suo prende su di sé la colpa e decide di partire: al villaggio anziché accusare Maria avrebbero accusato lui di averla ingravidata prima che fossero andati a vivere insieme. L’autrice interpreta così quel “decise di licenziarla in segreto” dell’evangelista Matteo. E Giuseppe inizia un viaggio nella notte che è il viaggio che deve fare chiunque vuole conoscere Dio e obbedire alla sua voce. Un viaggio che conosce la fatica di trovare la strada e il pericolo di morire nel deserto per mancanza di acqua. Un viaggio che finisce con un incontro e il ritorno a casa, ristorato da un’acqua che ha estinto non solo la sete fisica. E’ questo il sogno che la De Mari fa percorrere a Giuseppe figlio di Giacobbe, lo sposo di Maria.