Partiamo dai dati concreti. Questa stagione ecclesiastica passerà alla storia, in una fase di complessa post-modernità, per aver riattivato canali di dialogo inefficaci per decenni, nonostante l’ininterrotto impegno della diplomazia pontificia, degli episcopati e delle associazioni laicali. Quattro esempi: il ripristino delle relazioni ufficiali tra Stati Uniti e Cuba, il primo incontro della storia tra il Papa e il Patriarca ortodosso di Mosca, la comune preghiera di pace nei Giardini vaticani tra israeliani e palestinesi, l’intesa tra Vaticano e Pechino per una maggiore libertà religiosa in Cina. Tutto risolto quindi? Ovviamente no!
La Chiesa è più che mai crocevia di tensioni internazionali e di epocali partite in corso sullo scacchiere internazionale. Invece di semplificare il contesto planetario, la globalizzazione iper-tecnologica e ultra-liberista, ha reso più articolate, difficili, e spesso incomprensibili le crisi bilaterali. Ne abbiamo l’evidenza in due scenari sotto i nostri occhi in queste ore: la guerra dei dazi tra Usa e Cina; le trattative tra cancellerie occidentali e Russia sull’Ucraina.
Il Segretario di Stato della ostpolitik vaticana durante la guerra fredda, Agostino Casaroli, diceva che il dialogo è un metodo. Nella mia esperienza ho verificato che gli spiragli di mediazione si creano quando alle preclusioni ideologiche si sostituisce il pragmatismo del buon senso.
Disarmarsi è l’arma più efficace. Avere la lungimiranza di fare un passo di lato rispetto alle proprie battaglie identitarie, ha il pregio di avvicinarci a chi ipoteticamente può essere nostro avversario. Se facciamo un passo verso i lontani ci avvicineremo entrambi al bene comune. Nella consueta conferenza stampa sul volo di ritorno dalla Romania, il Papa ha dato lezione di praticità, evitando di lasciarsi strumentalizzare da posizioni preconcette. La Santa Sede non chiude pregiudizialmente le porte a nessuna interlocuzione politica, sociale, e macro-economica in senso universale, come si evince anche dai discorsi del Pontefice a trent’anni dalla caduta del muro di Berlino.
Invece di enfatizzare ciò che divide, la Chiesa valorizza ciò che unisce, dando in prima persona esempio di cooperazione con lo Stato italiano in una pluralità di settori, inclusa l’accoglienza dei migranti in fuga dalla sponda meridionale del Mediterraneo. I mass media hanno per settimane estremizzato i motivi di dissenso, il mondo cattolico al contrario ha deciso di rimboccarsi ancora una volta le maniche (come già accaduto per la nave Diciotti) e di trovare soluzioni concrete a emergenze ormai sempre più prevedibili. Nessun uomo è un’isola e nessuno si salva da solo. Chiamarsi fuori equivale a commettere peccato di omissione. Quei cristiani, come li chiama Francesco, del tè delle cinque che restano al balcone per non trovarsi invischiati in questioni complicate, ma poi pretendono di aprire e chiudere le dighe del confronto, sono un palese paradosso. Come se il dialogo tra Stato e Chiesa fosse il Mose di Venezia, dove le barriere si aprono a comando, a seconda delle opportunità e dei bisogni istantanei. Non è questa, però, la Chiesa del Vangelo. Gesù insegna che dialogare con i vicini è prassi consueta a tutti, ma i suoi discepoli si riconoscono dalla parola rivolta ai lontani, addirittura ai nemici.
Amare e aiutare chi ti vuole bene è semplice e scontato, amare chi ti guarda contrariato e pregiudizialmente risentito è segno di autentica Grazia. E poi, chi lo va a spiegare a quei bambini ospitati al termine di un’odissea disumana, che le istituzioni fanno comodo e vanno bene per il dialogo solo quando sono in mano ai nostri presunti amici? Tra l’altro, chi segue Cristo si rivolge a chiunque, non ha “riserve indiane” di amicizia e collateralismo. Se, per salvare vite umane, è necessario mantenere attivi corridoi negoziali, attraverso flussi di fraternità informale e fuori dagli schemi, non serve vantare pedigree di cattolicità, basta testimoniare quotidianamente la fede assieme a “tutti gli uomini di buona volontà” (Giovanni XXIII ). Questo è il momento di conseguire risultati, non di collezionare chiacchiere. L’ora del tè è rinviata.