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L’insostenibile eccesso di formalismo e burocrazia

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Secondo le recenti previsioni del Fondo Monetario Internazionale (FMI) il nostro Paese subirà una straordinaria contrazione economica a causa del Covid-19, che comporterà la caduta del 9,1% del prodotto interno lordo (PIL) nel 2020. In una condizione peggiore si trova soltanto la Grecia per la quale è ipotizzato un crollo del PIL del 10%.

Tuttavia, l’impatto negativo, per il World Economic Forum, uno degli organismi più autorevoli di monitoraggio dell’economia mondiale, coinvolgerà tutti i Paesi del globo ed in particolare quelli più industrializzati.

Anche a livello europeo quindi, seppure con quale differenziazione, la situazione non cambia. Per la Germania, vale a dire lo Stato che versa in una condizione migliore degli altri, la previsione è di un calo del 7%, mentre la Francia si attesta a meno 7,2%. Più vicini ai valori italiani risultano essere la Spagna con la riduzione dell’8% e una disoccupazione in aumento fino al 20,8%. Situazione pressoché uguale al Portogallo e ad alcuni altri Paesi baltici come la Lettonia e la Lituania. Una crisi generalizzata quella che ci ha colpito, che rende improprio qualsiasi confronto con le recessioni del passato compresa quella della Grande Depressione.

Ovviamente, le previsioni del Fondo Monetario e della Banca Mondiale sono strettamente collegate alla gravità e alla durata della pandemia. E, anche se con un certo slancio ottimistico, si basano sul presupposto che le restrizioni diminuiranno a partire dalla seconda metà dell’anno e che le ingenti immissioni finanziarie da parte di Governi e Banche centrali, saranno sufficienti ad evitare il collasso delle imprese; la crisi finanziaria e la disoccupazione di massa. Eppure, anche se sconvolgenti, i pronostici delle istituzioni economiche si collocano in secondo piano rispetto alla preoccupazione della diffusione del contagio e alla sofferenza per la scomparsa dei tanti colpiti dalla malattia.

Affidandoci alla comunità scientifica, nel ritrovato apprezzamento per la competenza, la nostra attenzione è assorbita dai risultati della ricerca per la cura e il vaccino al fine di sconfiggere e prevenire il contagio. Cosa che certamente avverrà in un tempo tanto più breve quanto maggiore sarà il rispetto delle regole di isolamento sociale che, per quanto gravose, risultano essere per ora l’unico presidio certo alla salute di ognuno e della collettività.

Un sentimento comprensibile che tuttavia deve essere coniugato con gli effetti della pandemia che, purtroppo, sopravviveranno alle cause della stessa e, in alcuni casi, già oggi sono evidenti soprattutto nelle fasce più fragili della popolazione. Al quesito che aleggia sempre più fitto, ovvero se usciremo da questa situazione, sarà possibile rispondere affermativamente a condizione che si rispettino talune fondamentali prescrizioni.

Riferire la verità innanzitutto; le parole mai come ora sono importanti soprattutto se a pronunciarle è chi ha l’onere di rappresentare le Istituzioni. Bisogna dire che nulla sarà come prima. Ma se è vero che non possiamo impedire il cambiamento è altrettanto certo che possiamo guidarlo sostenendo, in primo luogo, il necessario mutamento valoriale ponendo al primo posto la solidarietà. Un concetto peraltro, già presente nella nostra Carta Costituzionale come dovere inderogabile. Parimenti necessario è la rimodulazione della gerarchia dei diritti, riconoscendo alla salute e dall’ambiente priorità rispetto ad altri.

Sotto il profilo più propriamente organizzativo, bisogna preservare le prerogative essenziali dello Stato sociale nel quale confluiscono, tra gli altri, lo Stato di diritto e la sanità pubblica, soprattutto per fornire sostegno a chi ha più bisogno. Perché ciò si realizzi, contrariamente da quando sta accadendo, devono essere promulgate poche e chiare regole giuridiche alle quali tutti possono affidarsi nel tentativo, che per la politica costituisce un vero e proprio obbligo, di trasformare un momento drammatico in una occasione utile a superare l’ormai insostenibile eccesso di formalismo e di burocrazia.

Gerardo Villanacci: