Le novità introdotte dalle linee-guida riguardanti l’“interruzione volontaria di gravidanza con mifepristone e prostaglandine” – ovvero con la c.d. pillola RU486 (nome commerciale Mifegyne) – sono da valutare con molta severità. L’eliminazione del ricovero e lo spostamento a nove settimane, rispondono ad una logica ideologica che non tiene conto né del bimbo che vive e cresce nel grembo della sua mamma, né della donna.
“Pesticida antiumano” definì Jerome Lejeune la RU486, specificando che si tratta di una “guerra chimica”, di “un prodotto che ha una tossicità specifica per gli esseri umani a un certo stadio di sviluppo”. Sono poi risaputi gli effetti collaterali avversi, anche molto gravi, sull’organismo della donna. Pertanto, l’assenza di ricovero e dunque di sorveglianza medica, esaspera a rischi per la sua salute a causa della solitudine in cui viene a trovarsi. Ma anche la salute psichica ne resta traumatizzata perché tutto il processo di morte, dall’assunzione della prima pillola a base di mifepristone all’espulsione del figlio, è scaricato sulla donna. Uno scenario tristissimo di morte e abbandono che rende prevedibilmente ancora più pesante la ferita psicologica che l’aborto volontario infligge comunque alla donna.
L’allungamento del termine fino a nove settimane è pretestuoso perché, la pillola RU486 è calibrata per agire al massimo fino alla settima settimana; successivamente diminuisce la sua efficacia mortifera in modo importante e, tra l’altro, la letteratura scientifica ha sempre sottolineato rischi maggiori per la donna proprio con l’avanzare della gravidanza.
In sostanza, si accelera il processo di banalizzazione dell’aborto sottraendo l’opzione abortiva a quel minimo di verifica intersoggettiva e sociale ed eliminando quei pur deboli filtri a protezione della vita nascente e della maternità previsti dalla legge 194 che resta comunque integralmente iniqua perché contiene i germi della situazione che stiamo vivendo. Insomma, la Ru486 non è così innocua e indolore, né si tratta di un metodo non invasivo dato che non c’è nulla di più invasivo che uccidere esseri umani, tanto più se privi di ogni capacità di difesa. È una via “comoda”, quella dell’aborto domiciliare e privatizzato per sbarazzarsi dei problemi e delle difficoltà che può comportare una gravidanza; è una via “economica” per risparmiare sulla sanità.
Al di là delle iniziative immediate per arginare la diffusione dell’aborto farmacologico secondo le modalità delle linee di indirizzo ministeriali, questa è anche l’occasione per ripensare a fondo all’ingiustizia di uno Stato che legittima l’aborto. Il vero dramma è l’aborto in sé, la sua legittimazione sociale, il suo essere considerato un “servizio pubblico e gratuito”, addirittura un “diritto” mentre dei diritti umani è la distruzione.
Alla radice della mentalità abortista c’è la cancellazione del concepito come essere umano o, almeno, una sorta di agnosticismo indifferente, comunque la pretesa di agire come se lui non ci fosse. Non a caso, lo stesso Etienne Balieu, il medico francese che mise a punto la RU486, ripeteva: “sono dei pre-embrioni, non sono degli esseri umani”. Ecco perché è fondamentale tenere sempre ben presente che il concepito è “uno di noi”, liberare la donna dai condizionamenti che la inducono all’aborto e far emergere la profonda alleanza tra la donna e la vita nascente.