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Le due forme supreme della testimonianza cristiana

Il celibato per il Regno non è per persone disamorate e irresponsabili, per scapoloni inaciditi, ma per persone veramente innamorate e mature. Uno dei mali peggiori che può capitare ai presbiteri è l’anestesia affettiva che ci riduce a burocrati che vogliono fare carriera, a funzionari del sacro. A dimostrarlo è la figura di Sant’Agnese. Nonostante la sua giovane età e la sua fragilità è presentata, come vergine promessa sposa a Cristo “più bello del sole e della luna”, che con il suo anello l’ha impegnata e ha posto sul suo capo la corona di gloria e che Lei ha amato senza misura e di cui ora contempla il Volto glorioso dopo averlo tanto cercato.

Anche noi siamo invitati a essere assidui contemplatori del volto di Cristo per essere testimoni credibili per gli uomini e per le donne del nostro tempo, che dobbiamo condurre a scoprire la bellezza di Cristo. Quanto più il nostro sguardo resterà fisso sul suo volto, tanto più saremo in grado di seguirne fedelmente le orme e di affascinare altri a seguirlo. L’amore verginale e sponsale di Agnese per Cristo, che gli ha fatto scegliere la verginità e gli ha fatto affrontare il martirio, è lo stesso amore che deve caratterizzare l’esperienza dei presbiteri e futuri presbiteri chiamati a condividere la carità pastorale di Gesù Buon Pastore e nello stesso tempo agnello immolato.

Tra verginità consacrata e martirio, ambedue espressioni di un amore riconoscente per Gesù Cristo che ci ha amato fino al dono della vita, c’è un profondo legame che consiste nel loro carattere totalizzante ed irreversibile. Queste due forme supreme della testimonianza cristiana affermano, attraverso la loro radicalità ciò che in realtà è incluso implicitamente in ogni autentico atto della libertà umana che intende affermare il primato di Dio come valore assoluto. A questa condivisione dell’esperienza di Sant’Agnese ha esortato San Giovanni Paolo II in occasione della festa di Sant’ Agnese del 2003. “Questa giovane martire – diceva – ci invita a perseverare con fedeltà nella nostra missione fino, se necessario, al sacrificio della vita”. Ed aggiungeva che il sacerdote “deve essere santo ed educatore di santità con l’insegnamento, ma ancor più con la testimonianza. È questo il “martirio” a cui Iddio lo chiama, un martirio che, pur quando non conosce il violento spargimento del sangue, esige sempre quell’incruenta ma eroica “costanza nella fede” che contraddistingue l’esistenza dei veri discepoli di Cristo” (19 gennaio 2003). A partire dalla testimonianza verginale di Agnese ci viene chiesta una scelta celibataria fatta per amore, vissuta con amore, realizzata ogni giorno nell’amore. La categoria della verginità si coniuga con quella della sponsalità che manifesta il significato profondo del celibato come risposta all’ alleanza sponsale di Gesù Cristo con la Chiesa. Essa indica la totalità dell’appartenenza a Cristo, la definitività e la trasparenza dell’amore umano al suo più alto vertice, che rende il cuore umano capace d’amare alla maniera di Dio, perché trova la sua sorgente nell’abisso dell’Amore Trinitario.

La spiritualità sponsale del presbitero è descritta in questi termini da Giovanni Paolo II nella “Pastores Dabo Vobis”: il sacerdote è “chiamato nella sua vita spirituale a rivivere l’amore di Cristo sposo nei riguardi della Chiesa sposa. La sua vita deve essere illuminata e orientata anche da questo tratto sponsale, che gli chiede di essere testimone dell’amore sponsale di Cristo, di essere quindi capace di amare la gente con cuore nuovo, grande e puro, con autentico distacco di sè, con dedizione piena, continua, fedele, e insieme con una  specie di gelosia divina, con una tenerezza che si riveste persino delle sfumature dell’affetto materno, capace di farsi carico dei dolori del parto finché Cristo non sia formato nei fedeli”.

Nell’ultimo triennio la pandemia ha provocato in noi sentimenti di paura, tristezza, sfiducia, insicurezza sul futuro, desolazione ed afflizione. San Paolo nella sua preghiera di benedizione ci invita a sperimentare la consolazione che deriva dall’amore di Dio, Padre misericordioso e Dio di ogni consolazione. La sua misericordia Lo spinge ad essere il Dio di ogni consolazione, che ci incoraggia a non lasciarci vincere dalle tribolazioni e dalle difficoltà. La consolazione prima di essere un nostro atteggiamento virtuoso è un «dono di Dio che attraverso lo Spirito Consolatore non ci lascia mai soli ma ci consola, in ogni nostra sofferenza. Ed è per mezzo di quella consolazione che noi possiamo essere in grado di consolare a nostra volta quelli che si trovano in ogni genere di afflizione. A partire da questa esperienza siamo chiamati ad essere, nonostante le inadeguatezze, ministri della misericordia e della consolazione che deriva da Dio e dispensatori della sua Grazia.

mons. Michele Pennisi: