Nell’improvviso turbinio che ha investito le già tumultuose crisi internazionali in corso, dopo la vittoria di Donald Trump si segnala un piccolo barlume di speranza: la tregua in Libano. Piccolo, barlume e speranza. Non ci si illuda, di per sé è una pausa e nulla più. Troppi i conti in sospeso, troppa la violenza gratuita degli ultimi 12 mesi. Troppo inaffidabili tutti i protagonisti della tragedia mediorientale. Le prime ore parlano già di bombardamenti per impedire i trasferimenti dei profughi, di razzi e di mitraglie. Chissà che sarà, domani.
Oggi, per lo meno, non ci saranno operazioni militari in grande stile, e questo è un gran bene. Ma l’equivoco di fondo resta, e viene confermato dai termini stessi dell’accordo annunciati nelle ultime ore. Vale a dire: ritiro di Hamas a nord del fiume Litani (nome evocativo per quanti perseguono il progetto del Grande Israele), 60 giorni a Israele per il ritiro delle truppe (dopo la guerra del 1982 ci misero tre anni), nuova gestione del confine (formula generica, che lascia ampio margine all’imposizione dei rapporti di forza). L’Unifil, bombardata e vilipesa, conta sempre meno: non perché si tratti – come invece scritto anche in Italia – di una presenza inutile e fallimentare, ma per l’esatto contrario. I caschi blu, presenti dalle parti di Sidone da molti anni, erano stati garanzia di stabilità. Pertanto davano fastidio. Se li stanno togliendo di torno, e questo non è un buon viatico per una pace giusta e di lunga durata.
Il fatto che, a poche ore dall’annuncio del cessate il fuoco, il segretario di Stato Parolin abbia parlato di crisi del multilateralismo in un convegno alla Gregoriana è di per sé indice di quanto sta accadendo. Con ogni probabilità questa pausa è stata imposta, più che dalla volontà, dalla stanchezza delle parti. Inutile dire quella del Libano, stremato e mai ripresosi dall’esplosione del porto di Beirut di quattro anni fa. Netanyahu, da parte sua, è in guerra da un anno e passa: le risorse militari a sua disposizione sono molte ma non illimitate, per non parlare di quelle demografiche. Il recente ingresso nelle forze armate degli ultraortodossi rappresenta, al tempo stesso, la necessità di una mobilitazione totale e la sfida di assorbire in qualche modo nelle strutture di uno stato che si vorrebbe laico di elementi potenzialmente divisivi. Niente di peggio, in una situazione del genere, di dover sostenere una guerra su due fronti. Le parole usate in queste ore dalla dirigenza israeliana, infine, lasciano immaginare un quadro di sospensione delle ostilità da una parte per potersi meglio concentrare sull’altra. Quello che accadrà poi non lo sappiamo, ma ci viene da escludere l’idea che si torni ad Oslo per fare accordi.
L’America di Biden – cui bisogna riconoscere di aver gestito con serietà questa fase di passaggio delle consegne, cosa che Trump si guardò bene dal fare nel 2020 – deve far scendere la febbre, immaginando magari che la tregua porti consiglio. Di più non si può fare, il che fotografa con efficacia la sostanziale insufficienza dello sforzo statunitense in quest’area, e non solo sotto il presidente uscente. Troppo pessimismo? Ci auguriamo di sì. Intanto Papa Francesco, all’udienza del mercoledì, ha evitato di citare la tregua in Libano ma si è ricordato di far pregare per la pace in Terrasanta, quasi a marcare la differenza tra le due cose. E il patriarca di Gerusalemme dei Latini, il cardinal Pizzaballa, lo ha detto esplicitamente, che un conto è la tregua un conto è la pace. Tra l’una e l’altra forse non c’è il mare, no, ma di sicuro qualcosa di più ampio del Fiume Litani.