L’ultima tragedia che ha visto una mamma uccidere a fucilate il proprio figlio di 7 anni prima di togliersi la vita a sua volta, pur restando un caso isolato, deve innescare qualche riflessione più ampia. Come si può arrivare a vedere un futuro così nero da spegnere definitivamente la luce della vita? E come lo si può fare addirittura nei confronti del proprio figlio?
Liquidare la cosa come una “malattia della persona”, una “depressione incurabile”, una “follia” è superficiale e deresponsabilizzante. Troppo facile il discorso del concentrarci sul “mondo che ci circonda”: i fiori, gli alberi, il mare… tutte cose che nessuno può toglierci. E’ invece proprio “il mondo che ci circonda” a farci sprofondare nell’abisso dal quale a volte non si riesce a tornare. Quel mondo fatto di relazioni interpersonali distratte, concentrate ognuna sui propri problemi; fatto di istituzioni in costante carenza di risorse, con bilanci risicati che vanno a penalizzare l’assistenza sociale; fatto di una velocità ormai così spinta che chi resta indietro rimane solo.
Ecco la colpa di tutti noi, nessuno escluso, quando accadono fatti del genere. Aver lasciato solo un essere umano, aver giudicato i suoi problemi marginali, aver interrotto quella relazione fondamentale tra individui che si chiama “attenzione”, che dovrebbe essere più estesa anche se meno impegnativa dell’amicizia.
Siamo estranei, ci comportiamo come tali. Spesso anche all’interno delle famiglie, certamente nelle nostre comunità che stanno perdendo quel senso di identità che ha fatto da collante e cuscinetto per molti problemi nel corso degli anni passati.
Ecco allora che la “pazzia” prende forma, che nemmeno l’amore più grande, quello genitoriale, riesce a fermare sensazione di solitudine, che si affianca a quella di impotenza. In una società dove i valori non esistono più, nemmeno l’ascolto lo è.
E capita che una madre decida allora di togliere il futuro non solo a se stessa ma al proprio bambino: un domani che avrebbe potuto essere pieno di soddisfazioni, di successi, di amore. Tutto inghiottito quel buco nero emozionale che è dovuto appunto alla devastante disattenzione della società nei confronti dei singoli. L’uomo non è più “uno” in un tessuto di “molti”, ma è solo. Quando si specchia nei propri successi, in pieno delirio relativistico, conta esclusivamente il proprio benessere; quando è l’ombra del disagio ad affacciarsi, ci si accorge che senza una mano tesa è impossibile resistere. La storia di Laura, a Recanati, non è solo un fatto di cronaca, è un monito per l’intera umanità.