Editoriale

La pericolosa strategia adottata da Israele

La coerenza con cui Netanyahu persegue gli obiettivi dichiarati di annientamento dei nemici stanziati alle sue porte ha un qualcosa di terribile, qualcosa di disperato. Non che il premier israeliano abbia perso il sostegno dei suoi, semmai il contrario. E nemmeno che le operazioni militari si stiano rivelando un flop, anche qui è piuttosto il rovescio: dalla Guerra dello Yom Kippur nessun leader israeliano ha dovuto subire un rovescio, e certo Netanyahu non sarà il primo. Terribile, quindi, perché dietro tanta determinazione emerge, inconfondibile, la volontà di assestare al nemico un colpo senza scampo e senza pietà. Disperato perché più passa il tempo, più Israele appare come un Hulk in preda alla furia: colpisce ma senza sapere ben né dove, né a quale scopo. Impressione non del tutto giusta, questa, perché in realtà il governo israeliano sembra avere le idee chiarissime. Quasi vent’anni passati a progettare l’esplosione dei cercapersone di Hezbollah indicano piuttosto una fredda e calcolata lucidità. Allora viene da chiedersi se esista un tallone d’Achille di questa strategia basata sull’altrui distruzione, e dove esso sia collocato.

Il tallone d’Achille di questa strategia è nella strategia stessa. Netanyahu, alle Nazioni Unite, ha mostrato due cartine: l’una con i nemici, l’altra con gli amici. I primi sono gli abitanti della Mezzaluna Sciita, i secondi i sunniti e persino i wahabiti. Forte delle paci di Abramo con questi ultimi, Israele ha le mani libere per colpire oggi, domani e dopodomani tutti gli altri. Ma a che scopo? La risposta fornita da Tel Aviv è scontata e facile: assicurare la sicurezza e la sopravvivenza di Israele. Non c’è di che essere troppo sicuri, però, che funzioni, perché è la strategia adottata ad essere pericolosa.

Dopo l’orrore del 7 Ottobre – mai dimenticare cosa fu fatto in quella giornata maledetta – Netanyahu ha colpito con il suo maglio di ferro Gaza: 40.000 morti. Piegata Gaza, è passato al controllo della Cisgiordania. Ora tocca al Libano, poi sarà il turno dell’Iran. Si chiama o almeno si chiamava nei testi dei polemologi di quarant’anni fa, della tecnica della “difesa areale”, e consiste nel creare una zona di sicurezza lungo i propri confini per impedire attacchi e incursioni. Solo che le zone di sicurezza a loro volta diventano qualcosa da difendere, pena il perdere la sovranità su un’area che ormai viene considerata parte integrante dello stato, ed allora si passa alla creazione di un’area esterna che faccia da cuscinetto. Poi un’altra, poi un’altra, poi ancora. Due sono le linee azzurre nella bandiera d’Israele, e non c’è bisogno di ricordare cosa simboleggino. Quel che resta certo è l’impossibilità di realizzare un sistema che assicuri la sicurezza territoriale di Israele attraverso l’acquisizione del controllo su nuovi territori. Sono soluzioni effimere, non garantiscono nessuna forma di stabilità che vada oltre il medio periodo.

Ma tutto questo il governo Netanyahu non lo sa, o almeno finge di non saperlo. E se anche si dovesse evitare – ma pare sempre più difficile – la deflagrazione di un conflitto generale, sarebbe a sua volta una soluzione temporanea, senza reali prospettive per il futuro. E la Terza Guerra Mondiale a pezzi, prima o poi, si troverebbe a saldare le sue tessere.

Nicola Innocenti

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