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La pace richiede un cambio di mentalità

Il cambio d’epoca che stiamo vivendo presenta profili di estrema complessità. Infatti, questo nostro tempo risente delle tragiche conseguenze della pandemia da Covid-19, sta attraversando cambiamenti climatici fino a poco tempo fa impensabili, migrazioni bibliche di popoli, una crisi energetica, ecologica e ambientale che mettono in pericolo, con l’esistenza del pianeta, anche quella dell’umanità, una crisi commerciale con la Cina. Senza dire, poi, dell’assurda guerra scatenata dalla Russia contro l’Ucraina e del riesplodere del conflitto in Medio Oriente con il micidiale attacco militare di Hamas contro Israele. Tutto ciò nel contesto di un prevalente umanesimo ad impronta tecnocratica e neo-materialista che si sposa con una cultura fluida e massmediatica, con il capitalismo finanziario, in un mondo di nuove ideologie quali il neo-individualismo libertario, il neo-utilitarismo.

Mentre infuria la guerra in Ucraina e a Gaza, si impone l’urgenza di un nuovo pensiero pensante, non semplicemente calcolante, e di un nuovo Umanesimo trascendente, di una nuova progettualità socioculturale e politica a raggio mondiale. Specie le devastazioni prodotte dall’aggressione russa – con i mutamenti degli equilibri religiosi e geopolitici, con gli sconvolgimenti delle relazioni internazionali dal punto di vista giuridico, militare e commerciale – richiedono il ripensamento non solo della configurazione dell’Occidente europeo sia nei confronti delle pressioni russe sia della dipendenza dagli Stati Uniti, ma anche degli stessi rapporti mondiali fra i popoli entro la famiglia umana.

Come è stato osservato dal prof. Stefano Zamagni, già presidente della Pontificia Accademia delle scienze sociali, sono due gli elementi che caratterizzano la nostra nuova epoca. Il primo è che la fine della guerra fredda ha distolto l’Occidente dai suoi impegni a favore dei paesi poveri del Sud del mondo, una volta venuto meno il rischio di diffusione del sovietismo in quei paesi. Ciò aiuta a comprendere perché quella in corso è la prima guerra di carattere globale e non già di carattere mondiale. È chiara la differenza. Mentre quest’ultima diffonde le sue conseguenze negative dirette solamente tra i paesi belligeranti, una guerra globale è tale quando le conseguenze colpiscono anche paesi terzi che non hanno parte nel conflitto. Il caso odierno della carenza di cibo dovuta, non alla mancanza fisica dello stesso, ma al blocco dei traffici marittimi e terrestri, è solamente un caso esemplificativo, quello che più sta sorprendendo l’opinione pubblica. Con il blocco dei cereali e dei fertilizzanti, la fame è strategicamente pianificata per prendere corpo in altri paesi, come arma per determinare migrazioni dall’Africa verso l’UE, che pure non è in guerra.

Su questo aspetto, quello migratorio, segnalo solo quello che pare profilarsi come un nuovo ruolo del Vaticano per evitare l’isolamento morale e politico dell’Italia cercando di avviare un processo di riforma delle procedure e delle norme europee promuovendo un piano di sviluppo per l’Africa, che tante volte è stato evocato o proposto a livello europeo e internazionale, ma che ben pochi risultati ha ottenuto. Discorso analogo vale per l’energia. Il secondo elemento è che, fino ad anni recenti, mai si era pensato alla globalizzazione in situazioni di guerra. Anzi, se c’era un convincimento diffuso, tra studiosi e opinionisti, questo era che la globalizzazione, pur con le sue aporie, servisse la causa della pace.

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