Dio ci ama, non ci induce in tentazione. Il cambiamento al testo del “Padre Nostro” è stato necessario per rispettare le intenzioni di preghiera di Gesù e l'originale greco. Quel “non indurci in tentazione” poteva far pensare quasi che fosse Dio a spingere verso il male. L'azione di Dio, invece, di fronte al male è salvifica. Prima di proporre, Catechismo alla mano, qualche spunto di riflessione, azzardo impropriamente un umile “mea culpa” professionale a nome della categoria. I media in coro hanno ricondotto esclusivamente a papa Francesco la modifica al “Padre Nostro” (che dal 29 novembre non avrà più l'invocazione a Dio “non indurci in tentazione” bensì quella “non abbandonarci alla tentazione”), ma quasi nessuno ha ricordato che ad avviare il percorso di modifica è stato Giovanni Paolo II. Poi Benedetto XVI ha proseguito il lavoro. Per passare dal sacro al profano, è come se un’autostrada venisse ascritta solo al ministro sotto la cui potestà viene tagliato il nastro dell’inaugurazione sottacendo le fasi precedenti dell’opera. Come sempre nelle questioni ecclesiali, la forma è contenuto. Il cardinale Giuseppe Betori ha ricordato su Avvenire che l’inizio del lavoro di revisione risale ial 1988, quando si decise di rivedere la vecchia traduzione del 1971, ripubblicata nel 1974 con alcune correzioni. Fu istituito un gruppo di lavoro di 15 biblisti coordinati successivamente da tre vescovi (prima Costanzo, poi Egger e infine Festorazzi), che sentì il parere di altri 60 biblisti. A sovrintendere questo gruppo di lavoro c’erano la Commissione episcopale per la liturgia e il Consiglio permanente, all’interno del quale era stato creato un comitato ristretto composto dai cardinali Biffi e Martini e dagli arcivescovi Saldarini, Magrassi e Papa. Questo Comitato ricevette e vagliò anche la proposta di una nuova traduzione del Padre Nostro e, tra le diverse soluzioni, venne adottata la formula “non abbandonarci alla tentazione“, sulla quale in particolare ci fu la convergenza di Martini e Biffi, i quali come è noto non sempre si ritrovavano sulle stesse posizioni. Ora, il fatto che ambedue avessero approvato questa traduzione fu garanzia nel 2000 per il Consiglio permanente, e poi per tutti i vescovi, della bontà della scelta. Il Messale con la nuova versione del Padre Nostro uscirà a Pasqua. L'uso liturgico sarà introdotto a partire dalle messe del 29 novembre, prima domenica d'Avvento. Il Vangelo tascabile che papa Francesco ha fatto distribuire ai fedeli in piazza sei anni fa riportava già la versione modificata della preghiera. La fede della Chiesa precede la fede del credente, che è invitato ad aderirvi. La modifica apportata al “Padre Nostro” è stata resa necessaria per una fedeltà alle intenzioni espresse dalla preghiera di Gesù e all'originale greco. Quando la Chiesa celebra i sacramenti, confessa la fede ricevuta dagli Apostoli. Da qui l'antico adagio: “Lex orandi, lex credendi ”. Lo sostiene già dal quinto secolo San Prospero di Aquitania, segretario di papa Celestino I, nelle sue “Epistulae”: “Legem credendi lex statuat supplicandi” (la legge della preghiera stabilisca la legge della fede). L’originale greco del “Padre Nostro” usa un verbo che significa letteralmente “portarci, condurci”. La traduzione latina “inducere” poteva richiamare l'omologo greco. Però, in italiano “indurre” vuol dire “spingere a..” e cioè, in sostanza, “far sì che ciò avvenga”, perciò risulta strano che si possa dire a Dio “non spingerci a cadere in tentazione”. Insomma, la traduzione con “non indurci in…” non risultava fedele. La legge della preghiera è la legge della fede, la Chiesa crede come prega. La Liturgia è un elemento costitutivo della santa e vivente Tradizione, come ribadisce la “Dei Verbum”, costituzione dogmatica emanata dal Concilio Vaticano II sulla Divina Rivelazione e la Sacra Scrittura. A cambiare il “Padre Nostro” per renderlo più fede all’originale sono stati anche gli episcopati di tutto il mondo. Come ricorda la vaticanista dell’Ansa Nina Fabrizio, la nuova versione corrisponde alla traduzione già osservata in Vaticano: anche domenica scorsa nella Giornata per la Parola di Dio, la prima della storia, indetta proprio da Francesco, il Pontificio Consiglio per la Promozione della Nuova evangelizzazione ha promosso nel pomeriggio, nella basilica di Sant'Agnese, una maratona di lettura del Vangelo di Matteo e il testo consegnato ai lettori recava proprio la nuova formula “non abbandonarci alla tentazione”. E del resto, in spagnolo, la lingua più parlata dai cattolici nel pianeta, si dice “fa che noi non cadiamo nella tentazione”. In francese, dopo molti travagli, si è passati da una traduzione che era “non sottometterci alla tentazione” alla formula attuale che è “non lasciarci entrare in tentazione”. Ora anche la Conferenza episcopale italiana, dopo un lungo dibattito, si adegua. L'idea da esprimere, precisa l’arcivescovo teologo Bruno forte, è questa: il nostro Dio, che è un Dio buono e grande nell'amore, fa in modo che noi non cadiamo in tentazione. La proposta di Forte era che si traducesse in “fa che non cadiamo in tentazione”, però, dato che nella Bibbia Cei la traduzione scelta è stata “non abbandonarci alla tentazione”, alla fine i vescovi italiani, per rispettare la corrispondenza tra il testo biblico ufficiale e la liturgia, hanno preferito la versione “non abbandonarci in tentazione”. Dobbiamo aiutare le persone, spiega Forte, a capire che non si tratta di voler un cambiamento fine a se stesso ma di cambiare per pregare in maniera ancora più consapevole e vicina a quelle che sono state le intenzioni di Gesù. Dalla necessità di pregare per tutti, si deduce la necessità universale della grazia. Come si prega, si crede.