La situazione a Gaza peggiora di giorno in giorno. Impressionanti i numeri, quelli veri, quelli che sono dietro molte guerre e dei quali non parla mai nessuno. I dati del nono rapporto dell’UNRWA delle Nazioni Unite (aggiornati al 20 ottobre 2023) parlano di 3.785 palestinesi morti e altri 12.493 feriti, dal 7 al 20 ottobre 2023. Di questi, 3.983 sono bambini e 3.300 donne. In Cisgiordania, compresa Gerusalemme Est, i feriti sarebbero almeno 1.230 (dati OCHA). Tantissimi i morti anche sul fronte israeliano: i morti sarebbero 1.300 e almeno 4.562 i feriti. Rilevante anche il numero dei funzionari dell’UNRWA uccisi nella Striscia di Gaza: sono 16 dall’inizio della guerra. UNRWA: Rapporto sulla situazione a Gaza e in Cisgiordania (unric.org)
Nella Striscia di Gaza, i palestinesi che cercano di fuggire, di diventare “rifugiati” o “sfollati”, spesso non riescono a oltrepassare le frontiere. Chiuse anche a causa del veto posto dagli USA alla proposta del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite di aprire dei corridoi umanitari. Durante la votazione del 7 ottobre scorso, gli USA hanno esercitato il proprio diritto di veto impedendo ai 12 voti (su 15) dei paesi favorevoli di valere democraticamente. Il Consiglio di Sicurezza non riesce ad adottare la risoluzione che chiede pause umanitarie nella crisi Israele-Gaza a causa del veto degli Stati Uniti | Stampa ONU Anche chi ha cercato rifugio nei campi profughi organizzati dall’UNRWA è stato colpito. Dalle bombe, ma anche dalla crisi idrica causata dalla mancanza di disponibilità del carburante necessario per far funzionare le pompe dell’acqua e gli impianti di desalinizzazione. Non c’è da sorprendersi: non è la prima volta che Israele usa l’acqua come arma.
Molti di quelli che hanno cercato rifugio nelle scuole non sono al sicuro. Oltre 4.000 sfollati interni che si erano rifugiati nella scuola UNRWA di Maghazi il 17 ottobre sono stati colpiti dalle bombe (e non per errore). Hanno cercato rifugio in altre scuole dove vivono ammassati, in condizioni terribili. Complessivamente, sono circa 367.600 gli sfollati interni ospitati nei 90 rifugi dell’UNRWA nelle aree di Middle, Khan Younis e Rafah. Altri 160.000 hanno trovato rifugio in una sessantina di scuole nelle aree del Nord e di Gaza. Spesso anche le informazioni sono un’arma: le autorità hanno pochi dati certi sulle condizioni di queste persone. “Nella Striscia di Gaza, gli incessanti attacchi aerei e i bombardamenti, insieme agli ordini di evacuazione emessi dalle forze israeliane, hanno fatto sfollare quasi un milione di persone e causato la morte e il ferimento di troppi civili”, ha dichiarato oggi Philippe Lazzarini, Commissario generale dell’UNRWA. “Dall’inizio della guerra, il 7 ottobre”, ha aggiunto Lazzarini, “Almeno 35 strutture dell’UNRWA sono state colpite, alcune direttamente”. Parole che dovrebbero far riflettere: la decisione di Israele di colpire non obiettivi militari ma civili, come scuole, ospedali e campi profughi, è una palese violazione degli accordi internazionali sottoscritti. E in molti casi, ci sarebbero pochi dubbi sulle responsabilità dei bombardamenti. “Siamo sconvolti nel ricevere continue notizie di civili uccisi a Gaza”, ha detto Lazzarini. “Purtroppo, è probabile che il numero reale sia più alto. Alcuni dei nostri dipendenti sono stati uccisi insieme alle loro famiglie mentre dormivano nei loro letti di casa”. “Nessuna parola può descrivere i livelli di condanna di tutte le atrocità e le violazioni, ovunque”. Eppure, stranamente, nessuno ha pensato di deferire Israele alla Corte Penale Internazionale (come fatto con Putin qualche mese fa). Solo la ministra ad interim dei Diritti sociali e leader di Podemos, Ione Belarra, ha chiesto al premier Pedro Sanchez di sospendere le relazioni diplomatiche con Israele, di stabilire un embargo alla vendita di armi a Israele e di denunciare il suo primo ministro alla CPI.
Intanto, a Gaza, la situazione peggiora di giorno in giorno. Secondo Martin Griffiths, Sottosegretario Generale per gli Affari umanitari e coordinatore degli aiuti di emergenza delle NU, “A due settimane dall’inizio delle ostilità, la situazione umanitaria a Gaza – già precaria – ha raggiunto livelli catastrofici. È fondamentale che gli aiuti raggiungano le persone bisognose ovunque si trovino a Gaza, e nella giusta misura”. Chiaro il riferimento alla decisione del governo di Israele di concedere l’accesso solo ad una parte ridotta degli aiuti umanitari inviati. “La consegna segue giorni di profonde e intense trattative con tutte le parti interessate per assicurarsi che le operazioni di aiuto a Gaza riprendano il più rapidamente possibile e con le giuste condizioni. Sono fiducioso che questa consegna sarà l’inizio di uno sforzo sostenibile per fornire forniture essenziali – tra cui cibo, acqua, medicine e carburante – alla popolazione di Gaza, in modo sicuro, affidabile, incondizionato e senza ostacoli”, ha aggiunto Griffiths. “La popolazione di Gaza ha sopportato decenni di sofferenza. La comunità internazionale non può continuare a deluderli”.
Quella tra israeliani e palestinesi è una guerra che va avanti da decenni. Era caratterizzata da due aspetti: da un lato, un Occidente “distratto” da altre guerre e missioni di pace; dall’altro, gli scontri spesso sono stati “a bassa intensità”. Una guerra senza fine. A nulla valse la storica stretta di mano tra il leader israeliano Yitzhak Rabin e il leader palestinese Yasser Arafat, sul prato della Casa Bianca, il 13 settembre 1993 (ai due leader – e a Shimon Peres, leader israeliano – fu conferito il premio Nobel per la Pace 1994 per “l’opera di diplomazia compiuta al fine di rappacificare le popolazioni dei Territori Occupati”). Le – poche – promesse fatte non sono mai state mantenute. Troppi gli interessi economici e geopolitici.
E troppi i paesi quelli che, in realtà, non hanno mai voluto che questa guerra finisse. Ancora oggi, lo Stato di Palestina è uno “Stato a riconoscimento limitato”. L’ONU lo ha riconosciuto come “Stato non membro con status di osservatore permanente” (risoluzione 67/19 dell’Assemblea generale del 29 novembre 2012). Eppure, finora 138 paesi membri delle Nazioni Unite hanno riconosciuto il suo “stato di Stato”. A non averlo fatto sono molti paesi occidentali, primo fra tutti gli USA. Questo ha creato un vuoto che ha permesso a Israele e Palestina di non porre fine ad una guerra che va avanti da oltre mezzo secolo.
Così tanto che molte delle persone, uomini, donne, bambini che sono morte a Gaza negli ultimi giorni non sapevano nemmeno il perché di quelle bombe. I confini territoriali c’entrano poco. Nel 1967, le Nazioni Unite e la Corte Internazionale di Giustizia avevano indicato quali erano i territori palestinesi (in arabo الأراضي الفلسطينية, al-arādi al-filasṭiniyya al-muḥtalla). Li definirono “territori palestinesi occupati”. Da chi? Da Israele, nel corso della guerra dei sei giorni del 1967. Si badi bene: per le Nazioni Unite, si trattava territori “occupati” e non “conquistati”. Nel 2005, Ariel Sharon, al governo in Israele, decise di adottare una politica diversa: la chiamò “terra in cambio di terra, pace in cambio di pace”. Molti pensarono che era giunto il momento di scrivere la parola fine su quel conflitto. Si illudevano.
Ora al governo dei rispettivi paesi, non ci sono più né Arafat né Perez né Rabin né Sharon. E in molti paesi occidentali la brama di vendere armi e di controllare il mondo va oltre il desiderio di pace in Medio Oriente. Oggi, la guerra tra Israele e Palestina non è più “a bassa intensità”. È un bagno di sangue senza precedenti. Senza vincitori né vinti. Con migliaia di civili morti senza sapere perché si sta combattendo.