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La glasnost vaticana e lo spirito di Dante

In vista del settecentesimo anniversario della morte di Dante (avvenuta nel settembre 1321 a Ravenna) si preparano in tutta Italia iniziative per commemorare il sommo poeta. C’è un po’ della sua rettitudine morale nella glasnost che Francesco porta avanti in Vaticano per rendere sempre più trasparente la Chiesa.Aprendo l’anno giudiziario, il Pontefice ha fatto riferimento all’inchiesta riguardante la gestione di fondi e di immobili (come quello del palazzo di Sloan Avenue acquistato a Londra dalla Santa Sede), parlando di “situazioni finanziarie sospette, che al di là della eventuale illiceità, mal si conciliano con la natura e le finalità della Chiesa, e che hanno generato disorientamento e inquietudine nella comunità dei fedeli”. E aveva sottolineato il Pontefice: “Un dato positivo è che proprio in questo caso, le prime segnalazioni sono partite da autorità interne del Vaticano, attive, sia pure con differenti competenze, nei settori della economia e finanza. Questo dimostra l’efficacia e l’efficienza delle azioni di contrasto, così come richiesto dagli standard internazionali”.

Foto © Vatican Media

Lo slancio morale del padre della lingua italiana, implacabile censore della corruzione politica ed ecclesiastica del suo tempo e soprattutto della simonia, rivivrà anche sul grande schermo. Un Dante diverso da quello che ci ha tramandato la scuola, ma basato su quanto scrive il suo unico biografo, Giovanni Boccaccio. È così che il grande regista cattolico Pupi Avati intende raccontare nel suo prossimo film il sommo poeta. Non sarà una fiction come I Medici di produzione americana, con la storia riscritta, ma, spiega Avati, “comunque sarà un film, non una cronaca; avrà un tasso di immaginazione che ha a che fare con le congetture”. E aggiunge: “Il nostro approccio è di grande rispetto: ecco perché abbiamo delegato Boccaccio a raccontarcelo invece di prendere Dante di petto, che sarebbe una cosa da far tremare i polsi“. Un film storico, quindi, precisa ancora il cineasta, “nel senso che ho undici consulenti tra i quali Emilio Pasquini, Marco Santagata, Franco Cardini: il meglio che si possa avere oggi in Italia. Però è pur sempre un film, non un saggio sulla vita di Dante. È un mio Dante che vorrei lo rendesse seducente. Il mio tema è far piacere Dante“. Non sarà l’Alighieri scolastico, appunto, “quel profilo con un naso fuori misura, lo sguardo arcigno, la lezione tramandata di un carattere autoritario, molto consapevole della propria cultura: tutto ha contribuito a farne un personaggio ignoto o poco noto alla gente. E invece Dante Alighieri, come ce lo racconta Boccaccio, è tutt’altra cosa”. Il titolo c’è già, Vita di Dante, e per Pupi Avati sarà un po’ il film della vita, “quello che ancora non sono riuscito a fare, ed è anche quello che ho corteggiato di più”, conclude il regista, che a 81 anni riesce ora finalmente “a vedere la fine del tunnel“. Nell’anno che precede il settimo centenario della morte dell’autore della Divina Commedia, il regista bolognese vede finalmente vicina la realizzazione di un progetto che insegue da 18 anni.Cambiano le epoche, ma le questioni di fondo restano. La purificazione, secondo Jorge Mario Bergoglio, guarisce la Chiesa e la Curia romana da suoi antichi mali, ma ad averne bisogno è il mondo intero. Il miglior esempio è la testimonianza. Quando al centro del sistema non c’è più l’uomo ma il denaro, quando il denaro diventa un idolo, gli uomini e le donne sono ridotti a semplici strumenti di un sistema sociale ed economico caratterizzato, anzi dominato da profondi squilibri.  Perciò, secondo il Papa che vuole una Chiesa povera per i poveri, c’è bisogno di etica nell’economia e c’è bisogno di etica anche nella politica. Del resto, più volte vari capi di Stato e leader politici che il Pontefice ha potuto incontrare dopo la sua elezione a vescovo di Roma gli hanno parlato di questo. Hanno detto: i leader religiosi devono aiutare, dare indicazioni etiche. Il ragionamento di Francesco è da leader morale del pianeta. Il pastore può fare i suoi richiami ma, come ricordava Benedetto XVI nell’enciclica Caritas in Veritate, servono uomini e donne con le braccia alzate verso Dio per pregarlo, consapevoli che l’amore e la condivisione da cui deriva l’autentico sviluppo, non sono un prodotto delle nostre mani, ma un dono da chiedere. E al tempo stesso Bergoglio si dice convinto che ci sia bisogno che questi uomini e queste donne si impegnino, ad ogni livello, nella società, nella politica, nelle istituzioni e nell’economia, mettendo al centro il bene comune. Dunque non si può più aspettare a risolvere le cause strutturali della povertà, per guarire le società da una malattia che può solo portare verso nuove crisi: i mercati e la speculazione finanziaria non possono godere di un’autonomia assoluta. Senza una soluzione ai problemi dei poveri non risolveremo i problemi del mondo. In questa ottica il Pontefice invoca programmi, meccanismi e processi orientati a una migliore distribuzione delle risorse, alla creazione di lavoro, alla promozione integrale di chi è escluso. Intanto, però, le parole forti e profetiche di Pio XI nell’enciclica Quadragesimo Anno contro l’imperialismo internazionale del denaro, oggi suonano per molti, anche cattolici, eccessive e radicali? “Pio XI sembra esagerato a coloro che si sentono colpiti dalle sue parole, punti sul vivo dalle sue profetiche denunce”, sostiene Francesco. “Ma il papa non era esagerato, aveva detto la verità dopo la crisi economico-finanziaria del 1929, e da buon alpinista vedeva le cose come stavano, sapeva guardare lontano. Temo che gli esagerati siano piuttosto coloro che ancora oggi si sentono chiamati in causa dai richiami di Pio XI”. Restano ancora valide le pagine della Populorum Progressio nelle quali si dice che la proprietà privata non è un diritto assoluto ma è subordinata al bene comune, e quelle del Catechismo di san Pio X che elenca tra i peccati che gridano vendetta al cospetto di Dio l’opprimere i poveri e il defraudare della giusta mercede gli operai. “Non solo sono affermazioni ancora valide, ma più il tempo passa e più trovo che siano comprovate dall’esperienza“, sostiene Bergoglio. “I poveri sono carne di Cristo. Prima che arrivasse Francesco d’Assisi c’erano i “pauperisti”, nel Medio Evo ci sono state molte correnti pauperistiche. Il pauperismo è una caricatura del Vangelo e della stessa povertà. Invece san Francesco ci ha aiutato a scoprire il legame profondo tra la povertà e il cammino evangelico. Gesù afferma che non si possono servire due padroni, Dio e la ricchezza. È pauperismo? Gesù ci dice qual è il “protocollo” sulla base del quale noi saremo giudicati, è quello che leggiamo nel capitolo 25 del Vangelo di Matteo: ho avuto fame, ho avuto sete, sono stato in carcere, ero malato, ero nudo e mi avete aiutato, vestito, visitato, vi siete presi cura di me. Ogni volta che facciamo questo a un nostro fratello, lo facciamo a Gesù. Avere cura del nostro prossimo: di chi è povero, di chi soffre nel corpo, nello spirito, di chi è nel bisogno. Questa è la pietra di paragone. È pauperismo? No, è Vangelo“. Infatti, prosegue Bergoglio, «la povertà allontana dall’idolatria, dal sentirci autosufficienti. Zaccheo, dopo aver incrociato lo sguardo misericordioso di Gesù, ha donato la metà dei suoi averi ai poveri”. Quello del Vangelo è “un messaggio rivolto a tutti, il Vangelo non condanna i ricchi ma l’idolatria della ricchezza, quell’idolatria che rende insensibili al grido del povero. Gesù ha detto che prima di offrire il nostro dono davanti all’altare dobbiamo riconciliarci con il nostro fratello per essere in pace con lui. Credo che possiamo, per analogia, estendere questa richiesta anche all’essere in pace con questi fratelli poveri”.

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