Sono trascorsi 53 anni da uno storico evento ecclesiale. La seconda Conferenza generale dell’episcopato latinoamericano. Si tenne a Medellín, in Colombia nel 1968. Jorge Mario Bergoglio non partecipò alla Conferenza di Medellín. E nei suoi scritti non c’è nessun esplicito riferimento ad essa. Ma dall’insieme dei suoi scritti e soprattutto dai suoi atteggiamenti e comportamenti pastorali posteriori, si può cogliere quanto ne abbia assimilato lo spirito. Tra i suoi scritti ne è un esempio emblematico la descrizione da lui fatta nel volume “Solo l’amore ci può salvare“, nel capitolo intitolato “Il coraggio di annunciare il Vangelo” (2006), della figura di monsignor Enrique Angelelli. Il vescovo di La Rioja che aveva incarnato pienamente lo spirito di Medellín fino a venire violentemente eliminato dal regime militare, nel 1976, per il suo impegno in difesa dei più poveri. E che è stato, come asserì Jorge Mario Bergoglio nel suo scritto, “testimone della fede versando il proprio sangue“.A Puebla Jorge Mario Bergoglio, che non era ancora vescovo, vi partecipò da superiore provinciale dei gesuiti argentini (1973-1979). Nel libro “Noi come cittadini, noi come popolo” ne fa una sola citazione esplicita. Ma si vede lungo tutto lo scritto, e soprattutto
nella sua prassi pastorale posteriore come vescovo, quanto egli abbia fatto suo il binomio-chiave “comunione e partecipazione“. Filo conduttore della Terza Conferenza nelle sue opzioni per una nuova evangelizzazione. Jorge Mario Bergoglio era invece vescovo da pochi mesi quando partecipò alla conferenza di Santo Domingo. Qualche anno dopo, il 30 settembre 2009, parlando, già da cardinale, in un convegno organizzato dall’ Università gesuita del Salvador a Buenos Aires, fece un riferimento al documento della Conferenza nel punto in cui esso afferma che la povertà estrema e le strutture economiche ingiuste che causano grandi disuguaglianze sono violazioni dei diritti umani. Ma fu soprattutto ad Aparecida che la sua partecipazione e il suo ruolo spiccarono in maniera rilevante. Come ricostruisce don Luis Antonio Gallo, teologo all’Università Pontificia Salesiana, intervistato nel libro “Il Concilio di Papa Francesco“, Jorge Mario Bergoglio fu relatore dell’Assemblea e anche estensore del suo documento. Successivamente, poco prima di essere eletto papa, nella Lettera all’Arcidiocesi di Buenos Aires per l’Anno della Fede intitolata “Varcare la soglia della fede” (2012), affermò che varcare la soglia della fede significa tra l’altro vivere nello spirito del Concilio e di Aparecida. Al di là dei riferimenti espliciti ai documenti delle conferenze episcopali latinoamericane, nei suoi scritti anteriori al suo pontificato si coglie con inequivocabile chiarezza una sintonia di pensiero, di atteggiamenti e di prassi con esse e, al di là di esse, con il Concilio Vaticano II che ne è la fonte ispiratrice.Don Gallo lo coglie soprattutto nella metodologia dell’approccio pastorale alla realtà. E cioè partire dalle situazioni reali, concrete, non da principi o enunciati dottrinali. Illuminandole con la luce del Vangelo e proponendo vie concrete di azione. E anche nell’insistenza su una Chiesa non autoreferenziale. Bensì in uscita verso le periferie, non solo geografiche, ma anche esistenziali, nelle quali si trovano i poveri, gli ultimi, gli esclusi. E nella proposta concreta (anche se non letteralmente enunciata) del binomio comunione e partecipazione, che richiede l’eliminazione di ogni accaparramento egoistico, singolo o di gruppo, sia dei beni materiali che del potere, della cultura o dei privilegi sociali. E verso l’abolizione di ogni forma di emarginazione ed esclusione.
Il lungo cammino ecclesiale latinoamericano, percorso sotto l’ispirazione e la guida degli orientamenti del Concilio Vaticano II, segna indubbiamente l’idea di Chiesa di Jorge Mario Bergoglio. Una delle innovazioni più rilevanti del Concilio Vaticano II nella sua prima fase di rinnovamento ecclesiale fu quella di riprendere la categoria “Popolo di Dio”, di sapore prettamente biblico. Nella Costituzione “Lumen Gentium“, il secondo capitolo porta come titolo “Il Popolo di Dio“. Una prospettiva che permise al Concilio di superare la visione piramidale e clericale propria del modello di Chiesa-istituzione sopra menzionato. Dei membri di questo Popolo disse, appunto, che “i battezzati vengono consacrati per formare un tempio spirituale e un sacerdozio santo”, che partecipano pure “dell’ufficio profetico di Cristo“. E che “la totalità dei fedeli, avendo l’unzione che viene dal Santo, non può sbagliarsi nel credere, e manifesta questa sua proprietà mediante il senso soprannaturale della fede di tutto il popolo“.
La fede di tutto il popolo
Ricevi sempre le ultime notizie
Ricevi comodamente e senza costi tutte le ultime notizie direttamente nella tua casella email.
Stay Connected
Seguici sui nostri social !
Scrivi a In Terris
Per inviare un messaggio al direttore o scrivere un tuo articolo: