Oggi comincia una nuova fase – la fase 2 – di un tempo straordinario che mese dopo mese, sia concesso il gioco di parole, sta diventando sempre più ordinario. Si parla di “nuova normalità” che prevede la convivenza con il coronavirus in attesa di una cura e, chissà, di un vaccino: tempi non proprio brevi che ci portano a fare considerazioni e progetti probabilmente mai pensati prima.
Tutto ad un tratto, la società responsabilizza i cittadini di ogni piccolo grande gesto, da quando si è in casa, nel privato, a quando si esce, per “necessità”: catapultati in un istante nell’essenzialità dei gesti. Come se il mondo, durante questa pandemia, venisse chiamato a vivere in modalità “risparmio energetico” per salvarsi, per fare meno rumore possibile e non farsi cogliere da questo nemico invisibile e ancora troppo poco conosciuto. Tutto questo per non rischiare di rivedere ancora una volta immagini come l’angosciante sfilata di camion militari con centinaia di morti che da Bergamo sono stati portati in altre regioni perché “non c’era più posto”. Non c’era più posto.
Ecco questa immagine, insieme a quella dei medici e operatori sanitari distrutti dalla fatica, insieme alle storie di genitori e figli, mariti e mogli, fratelli e sorelle, che non si sono neanche detti addio, devono restare scolpiti nella nostra memoria ogni volta che si prova insofferenza per la situazione che si sta vivendo, ogni volta che si sente la mancanza di tutto quel che si è perso. E’ nei loro confronti che tutti hanno il dovere morale di resistere e superare questo virus. E’ nei loro confronti che tutti coloro che non hanno vissuto il dramma di lutti improvvisi nelle loro case devono cercare di uscire da questo incubo essendo persone migliori. Il dolore può anche questo. Può trasformare le persone in meglio, può riavvicinarle, può dare la possibilità di nuovi inizi.
Si pensi soprattutto alle famiglie, così provate dalla quotidianità: genitori che, preoccupati dal lavoro, dimenticano di parlare con i loro figli; oppure figli talmente catturati da internet da non avere più il piacere di condividere, anche solo un pasto, con mamma e papà, senza il cellulare tra le mani. La famiglia, oggi più che mai, è il punto di ripartenza, primo corpo intermedio di una società che ha bisogno di rialzarsi. Una ricerca realizzata in Sicilia su un campione di 5mila famiglie con figli tra 10 e 18 anni ha dimostrato che “i genitori hanno sfruttato il lockdown per riappropriarsi del ruolo di primi agenti educativi dei loro figli”. Il distanziamento sociale ha in qualche modo determinato un riavvicinamento familiare. Lo studio si è proposto infatti di indagare i cambiamenti dei rapporti tra genitori e figli e dei ragazzi con le tecnologie nel periodo della quarantena avvalendosi di un questionario inviato su una chat di messaggistica istantanea. L’81% dei genitori ha dichiarato che stare più tempo a casa è stato utile per riappropriarsi del ruolo di primo riferimento educativo dei figli. L’80,32% del campione ha sfruttato la lunga permanenza a casa per conoscerli meglio, per avviare o riavviare le relazioni con loro. Anche la vita dei figli è cambiata: secondo il 76% delle famiglie siciliane, partecipano alle faccende domestiche e fanno piccoli lavori che impegnano creatività e fantasia. Altro importante cambiamento è quello di un uso più regolare delle tecnologie: utilizzando la didattica a distanza i preadolescenti e gli adolescenti hanno cominciato a usare le tecnologie per attività diverse dal guardare video o giocare con i videogames. I genitori raccontano di figli che hanno imparato a fare ricerche su internet, che sono diventati più abili e saggi nell’utilizzo delle tecnologie, in particolare dei social.
Certo sono dati di un piccolo sondaggio locale, una piccola storia da narrare in un momento di generale sconforto, ma servono a trovare punti di ripartenza, per tenere accesa la fiamma della speranza, anche per chi oggi non riesce a farlo.