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L’inno alla grande bellezza della vita

Foto di Erik Karits da Pixabay

Un grande inganno si è fatto largo nella società dell’opulenza e del benessere. Un inganno che ha radici profonde ed estremamente difficili da estirpare dal sentire comune e che ha trovato campo libero da quando il pensiero moderno ha decretato la morte di Dio e la fine di ogni realtà metafisica. Si tratta dell’idea che la vita dipenda dalla sua qualità e che una vita priva di determinate caratteristiche sia necessariamente infausta e penosa, indegna di essere vissuta. Con la morte di Dio si chiude il sipario del cielo e ogni speranza di riscatto nell’aldilà. La risurrezione diventa così un argomento per gli studi teologici di nicchia, la remunerazione eterna un racconto edificante per i poveri, l’esistenza ultraterrena una favola per bambini, l’idea di eternità una perversione imperdonabile e il giudizio universale un ricatto per i peccatori.

Il motto oraziano “carpe diem, tatuato sulle caviglie delle ragazze e sui bicipiti dei ragazzi è il nuovo lemma del vivere quotidiano sotto un cielo chiuso e grigio, con l’eternità rinchiusa e ridotta alla durata di un’esistenza terrena. In questa prospettiva la morte, così come la malattia e la vecchiaia, vengono bandite perchè minano il desiderio di felicità e infrangono il sogno di un appagamento immediato e duraturo.

La morte è dunque scacciata dall’orizzonte esistenziale quotidiano. La malattia temuta quale presagio di una sciagurata e ingloriosa fine, la vecchiaia rifiutata e rimandata ad oltranza. La sofferenza diventa vuota di senso, privata di ogni possibile significato e il sacrificio bandito come una sciagura.

Lo stile di vita sano diventa così un imperativo per chi vuole mantenere il proprio status di eterna gioventù fuori tempo massimo, assumendo in alcuni casi forme ossessive e paranoiche. L’attenzione per il fitness, le diete, la prestazione e la cosmesi diventano presto ossessioni che richiedono sostegno motivazionale quando non psicologico. L’ansia ci minaccia come una nuova pandemia mentre lo stress diventa il “male del secolo” che minaccia l’equilibrio psicofisico.

Nel frattempo la politica e la scienza sondano le inesplorate vie per un passaggio all’uomo nuovo secondo l’agenda transumanista, ideologia di stampo scientista in cui l’uomo – sostituto di Dio – forgia se stesso aumentando le proprie capacità aiutato dalla tecnologia. Ma questo meriterebbe un capitolo a parte. Sta di fatto che la fuga dalla morte impegna una società alla ricerca spasmodica del proprio potenziamento, della propria soddisfazione e realizzazione.

Il dilagare della grande menzogna, che la vita al di sotto di determinati standard non valga la pensa di essere vissuta, rende l’esistenza amara e mette a rischio la vita dei più fragili. Così a subire la condanna inappellabile sono coloro che vivono (o che ci costringono a vivere) lontani dagli standard di benessere desiderato, in particolare gli anziani, i bambini e i malati i quali diventano oggi loro stessi un appello vivente alla realtà e alla fragilità della vita, un lampante “memento mori” che nessuno vorrebbe tenere a mente.

Sugli anziani si è soffermato più volte papa Francesco ricordando che “una civiltà in cui non c’è posto per gli anziani o sono scartati perché creano problemi, porta con sé il virus della morte”. Mentre sui bambini la nostra società sembra aver emesso la sentenza: pochi e sani, sempre che le condizioni economiche lo permettano. I malati rappresentano ai più un peso sociale ed economico non indifferente. L’impossibilità di affrontare la malattia rende incapaci di accogliere i figli malati. Per questo le diagnosi prenatali rendono possibile la soluzione più facile: eliminare i bambini che presentino malformazioni, ritardi o altre malattie che possano infrangere il sogno di una vita sana e felice.

Una società che ha bandito ogni sacrificio come una sciagura e il dolore come una bestemmia, non tollera l’idea che si possa essere felici nella sofferenza, che questa possa assumere un senso. Per questo si crede che un bambino malato vivrà infelice e renderà infelice la propria famiglia, perché si afferma, “questa non è vita”; al tempo stesso una coppia che non riesce ad avere figli vivrà per sempre frustrata e triste mentre una famiglia con “troppi” figli avrà una esistenza caratterizzata da fatica e sacrificio, più vicini alla tristezza che al gaudio. Che dire poi di chi non riesce a stabilire un legame di coppia duraturo o di chi vive nella precarietà economica?

Una cultura di morte prende il sopravvento nella società occidentale tanto da far moltiplicare i casi di eutanasia facendola passare come una soluzione “dolce” al dolore e alla sofferenza insopportabili. Il piano si è inclinato da tempo nel nord Europa. La Danimarca ha da tempo messo al bando i bambini down: il 95% delle donne danesi li abortisce prima della nascita. Per questo nel 2020 sono nati solo 18 bambini con trisomia 21. Si pensa così di debellare la malattia uccidendo i malati! Come succede in Islanda dove ormai è impossibile nascere down. L’Olanda (primo paese ad aver legalizzato l’eutanasia) si aggiunge oggi al Belgio nell’estendere l’eutanasia ai bambini minori di 12 anni che soffrono di malattie gravi ed incurabili. La legge allarga sempre più le maglie e le poche restrizioni rimaste vengono di fatto ignorate. Così nei Paesi Bassi, tra il 2012 e il 2021, circa 60mila persone sono state uccise tramite eutanasia alcuni dei quali per motivi che si possono ritenere futili come autismo, solitudine, tristezza.

È per questo che colpiscono e commuovono storie di persone che, nonostante le malattie e le avversità, mostrano al mondo la bellezza della vita lottando e dichiarando al mondo che è possibile accettare la propria situazione di sofferenza e combattere senza chiudersi nel proprio dolore. In tutte le latitudini del globo ci sono state esperienze di questo genere. Per fermarci all’Italia valgano gli esempio di Bebe Vio, di Alex Zanardi, così come degli ex calciatori Vialli e Mihajlovic che non hanno nascosto le loro battaglie più dure ma le hanno vissute con dignità e coraggio.

Ma l’inno più grande e profondo nei confronti della vita viene da quelle persone che ne hanno capito fino in fondo il segreto. Ci riferiamo ai santi che hanno combattuto per la vita in ogni contesto e in ogni situazione, accettato la condizione di sofferenza come una occasione privilegiata per testimoniare l’amore di Dio e annunciare la bellezza della vita terrena in attesa della gloria celeste. Tra questi spiccano e splendono come astri i giovani che – in contro tendenza con la spasmodica ricerca di una felicità a buon mercato – hanno offerto in questo secolo una visione diversa ai loro contemporanei rimanendo come esempio per le generazioni a venire. Sempre per rimanere in Italia, le storie di Chiara Corbella, Carlo Acutis, Maria Luce Badano, Carlotta Nobile, David Buggi… Giovani che hanno tenuto acceso il sorriso e la speranza in situazioni limite che facilmente si definiscono “tragiche”.

A questo proposito spicca la figura di Jerome Lejeune medico francese, morto nel 1994 e oggi in processo di beatificazione, che fece della sua vita e della sua professione un inno alla vita. Fu lui che per primo scoprì la trisomia 21 all’origine della Sindrome di Down. Cattolico praticante, padre di cinque figli, medico e ricercatore di fama internazionale, Lejeune è considerato il padre della genetica moderna. Ha dedicato la sua vita e la sua attività alla ricerca di una cura e alla difesa dei più piccoli di fronte ad una scienza che – priva di riferimenti spirituali – muoveva vertiginosamente verso lo scientismo e l’utilitarismo materialista. La sua dichiarata guerra contro l’aborto (detto “preventivo”, attraverso la diagnosi prenatale da lui ideata per curare e non per uccidere) gli costò cara: escluso dai circoli scientifici più prestigiosi, ignorato e canzonato, subì feroci attacchi dai colleghi, dalla stampa e dall’opinione pubblica e venne ostacolato nel suo lavoro dalla mancanza di fondi a causa delle sue battaglie a favore della vita. Il professore accettava questi attacchi con grande virtù e davanti ai soprusi e alle calunnie affermava: “Non combatto per me, allora gli attacchi non hanno importanza”. Dedicò infatti la vita ai suoi pazienti malati coi quali manteneva un rapporto umano di vicinanza e compassione.

Racconta la figlia: “Era consapevole che ogni vita, anche se minorata agli occhi del mondo, vale la pena di essere vissuta. (…) Che dietro la malattia c’è un bambino capace di amore, di tenerezza e, perché no, di una certa felicità. Comprendeva le preoccupazioni dei genitori ma non le riteneva ‘una giustificazione sufficiente per avere la libertà di decidere il diritto di vita o di morte di un nostro simile, di un innocente malato'”. Non pensava così per convinzione religiosa. “Spesso diceva: ‘Se, Dio non voglia, la Chiesa arrivasse ad ammettere l’aborto, allora non sarei più cattolico’”.

Al ritratto intimo e familiare pubblicato dalla figlia Clara Lejeune (Cantagalli 2008) si aggiunge ora la biografia ufficiale scritta dalla postulatrice Aude Dugast in arrivo in Italia a Settembre. La sua opera e il suo messaggio restano come un inno alla grande bellezza della vita, nonostante tutto, anche in mezzo alle difficoltà e al dolore, anche quando si sperimenta la sua caducità.

Miguel Cuartero Samperi: