Il 10 ottobre 1992 si è celebrata la prima Giornata Mondiale della Salute Mentale e ogni anno viene proposto all’attenzione di tutti un tema diverso. Per la prossima giornata 2024 il tema è “La mia salute, il mio diritto” con lo scopo di organizzare un grande sforzo collettivo – sociale e istituzionale – di presa in carico delle persone con disturbi mentali che, nella nostra società sempre più tecnologica e sempre meno “relazionale”, sono in drammatico aumento. Per definire che cosa s’intenda per salute mentale, è necessario partire dalla definizione di “salute” prodotta dall’OMS: “Stato di completo benessere fisico, psichico e sociale, e non semplicemente assenza di malattia o infermità”. Si tratta di una definizione certamente molto impegnativa, e da subito viene da chiedersi se mai sia possibile, per chiunque, poter dichiarare di vivere in uno “stato di completo benessere”. Ciò premesso, oggi per “salute mentale” si intende uno stato di benessere emotivo e psicologico nel quale il soggetto è in grado di sfruttare le proprie capacità cognitive o emozionali, esercitare la propria funzione all’interno della società e rispondere alle esigenze quotidiane della vita di ogni giorno. Se ne deduce che “salute mentale” e “salute sociale” sono aspetti fortemente interconnessi e collegati.
Negli anni passati, lo stigma e la conseguente emarginazione sociale delle persone con disturbi di salute mentale erano fortemente radicati e diffusi soprattutto a causa di due fattori concomitanti: da una parte, credenze popolari di carattere superstizioso che accostavano la malattia mentale ad una sorta di possessione diabolica e, dall’altra, la scarsa conoscenza scientifica del “funzionamento” del nostro cervello e della mente umana. Oggi, certamente, le cose sono cambiate, ma è ancora assai carente la concreta presa in carico di queste persone, per la mancanza di strutture idonee di carattere medico, sociale, lavorativo in grado di rispondere alle necessità “particolari” che la malattia mentale porta con sé. Purtroppo – è davvero doloroso constatarlo – assai spesso queste persone sono abbandonate a sé stesse e altrettanto abbandonate sono le famiglie cui queste persone appartengono. Si tratta, non sempre ma molto spesso, di persone che le famiglie non sono in grado di gestire, presentando esigenze “speciali” a volte incompatibili con la quotidianità propria di una famiglia.
Nel giugno 2022, l’OMS ha pubblicato il nuovo “Rapporto Mondiale dedicato alla Salute Mentale”, a venti anni di distanza dal precedente. Rimarcando la necessità assoluta di una profonda ri-organizzazione dei servizi di salute mentale, si sono identificati due obbiettivi principali: spostare il luogo di cura di questi pazienti dagli ospedali psichiatrici verso la comunità; aumentare l’assistenza per ansia, depressione e altre forme di nevrosi da parte dei servizi basati sulla comunità. Un anno dopo, giugno 2023, la Commissione Europea ha prodotto il documento “Un approccio globale alla Salute Mentale”, indicando tre linee di condotta: prevenzione adeguata ed efficace, accesso alle cure e all’assistenza di qualità a costi sostenibili, reinserimento nella società nella fase di ripresa. Obbiettivi certamente opportuni, addirittura li possiamo definire “nobili”, ma nella concretezza – purtroppo – molto, molto difficilmente realizzabili, allo stato attuale della nostra organizzazione socio-sanitaria.
In Italia, il punto di riferimento è la legge 180/78 (cosiddetta “legge Basaglia”), recepita nella legge 833/78 che ha istituito il SSN, cui va riconosciuto il grande pregio di aver sottratto la persona con disturbo mentale dal drammatico stigma che ne faceva un “reietto” da isolare – magari per sempre – dal contesto sociale (internato psichiatrico “a vita”). Purtroppo, la stessa legge non è mai stata applicata nella sua completezza, ma solo – come spesso accade nel nostro Paese – nella sua “pars destruens” – chiusura degli ospedali psichiatrici – senza nulla fare nella “pars costruens”, cioè nella realizzazione di servizi sociali territoriali adeguati, funzionanti 24h, con previsione di “comunità di accoglienza e di vita” (strutture residenziali e semiresidenziali) che garantiscano la concreta presa in cura globale di chi ne ha bisogno, sgravando le famiglie di carichi che non sono in grado di portare. Una riforma “a metà” non è mai una buona riforma e rischia di creare più problemi di quelli che si era proposta di risolvere. Basta dare uno sguardo al Rapporto sulla Salute Mentale che viene stilato annualmente da parte del SISM (Sistema Informativo Salute Mentale) per rendersi conto del grave disallineamento esistente fra bisogni e soluzioni.
Purtroppo i bisogni sono in costante aumento, sia in ordine a malattie mentali importanti (psicosi) sia a mentali di carattere nevrotico, tipiche delle società industrializzate. A ciò si aggiunga che l’età delle persone coinvolte va sempre più abbassandosi. Certamente l’elenco delle cause è molto lungo e le cause stesse si intrecciano fra loro, ma un denominatore comune – a mio avviso – possiamo tentare di individuarlo. Viviamo immersi in una società sempre più individualista, in cui spesso le relazioni sociali sono improntate all’antagonismo per l’affermazione personale con l’esasperazione del successo, in cui le persone più deboli e fragili vengono ignorate e ghettizzate: la vita diventa sempre più vuota di senso e la rincorsa dell’effimero fa precipitare in quella che i filosofi hanno definito “angoscia esistenziale”.
I parametri sociali sono davvero drammatici: aumento dei suicidi (seconda causa di morte – dopo gli incidenti stradali – al di sotto dei 25 anni), aumento delle violenze di ogni genere, aumento dei disturbi mentali socialmente indotti, aumento delle forme di “dipendenza patologica”. Prevenzione e terapia? Riaccendere la speranza, che non può che nascere da una riscoperta profonda, concreta, esistenziale, della fede: sono convinto che ogni uomo/donna vive di un cibo che si chiama “sentirsi accolto, accettato, amato” e nessuno più del Padre Celeste ci ha amato e ci ama ogni giorno. Questo dobbiamo riscoprire ed incontrare.