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L’impegno della Chiesa nel formare la coscienza civile di rifiuto della mafia

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La Chiesa sente di avere una sua responsabilità per la formazione di una diffusa coscienza civile di rifiuto del costume e della mentalità mafiosi e si impegna nell’opera educativa e formativa dei suoi fedeli e, più in generale, di quanti, anche non credenti, vengono a contatto con le strutture educative da essa condotte o animate. Essa non si sente estranea all’impegno, che è di tutta la società siciliana, di liberazione dalla triste piaga della mafia. Nella lotta di liberazione dalle mafie c’è la necessità di una sinergia e di una vera e propria alleanza tra il mondo della giustizia, quello della cultura, dell’economia, del volontariato e dell’intera società civile in particolare delle scuole, dove valori civili e religiosi si fondono. La cultura della giustizia e della legalità deve diventare patrimonio non soltanto della magistratura ma anche di tutta la comunità che ha il diritto alla verità favorendo le nuove prospettive della giustizia riparativa. Alle comunità cristiane si richiedono dei gesti originali che interpellino cattolici e laici ad interrogarsi sulle modalità di una prevenzione dei reati collegati col fenomeno mafioso e di una lotta di liberazione dalle mafie come fenomeni collegati con l’idolatria del denaro e del potere.

Il mio approccio al fenomeno della mafia è iniziato per motivi di studio in preparazione alla mia tesi di dottorato su don Luigi Sturzo e il movimento cattolico sociale sotto la guida del gesuita padre Giacomo Martina e del professor Gabriele De Rosa. Il magistero di papa Giovanni Paolo II, di Benedetto XVI e di Papa Francesco ha contribuito all’interpretazione e alla condanna della mafia a partire dalle tradizionali e originali categorie cristiane. Giovanni Paolo II nel 1991 ai Vescovi siciliani diceva che la piaga della mafia “rappresenta una seria minaccia non solo alla società civile, ma anche alla missione della chiesa. Giacché mina dall’interno la coscienza etica e la cultura cristiana del popolo siciliano”.

Si incominciò a prendere coscienza che il fenomeno mafioso interessa da vicino la Chiesa, il suo impegno catechetico, la sua prassi pastorale, la sua azione sociale. Gli interventi pontifici hanno avuto un indubbio influsso nei pronunciamenti di condanna delle mafie pronunciati da vari episcopati delle Chiese meridionali, dalla CEI nel documento” Per un paese solidale: Chiesa italiana e mezzogiorno” del 2010 e avranno un influsso nel giudizio che in futuro i cristiani avranno nei confronti degli appartenenti alle varie mafie. Negli ultimi decenni in seguito anche al grave e ripetuto manifestarsi dell’esclusiva natura criminale e dell’estrema pericolosità sociale dell’organizzazione mafiosa e, conseguentemente, al crescere di una diffusa coscienza collettiva di rifiuto di forme di tolleranza e di pur tacita e passiva connivenza col fenomeno, è maturata nella Chiesa siciliana una chiara, esplicita e ferma convinzione dell’incompatibilità dell’appartenenza mafiosa con la professione di fede cristiana: il mafioso, in forza della stessa appartenenza alla cosca dedita strutturalmente al crimine, si pone oggettivamente fuori della comunione ecclesiale.

Una novità è emersa dalle parole pronunciate da Papa Francesco a Sibari il 21 giugno 2014; c’è l’esplicita condanna del comportamento mafioso con la commissione individuale di determinati atti criminali tipici della mafia, ma anche la stessa appartenenza all’organizzazione mafiosa: “Coloro che nella loro vita seguono questa strada di male, come sono i mafiosi, non sono in comunione con Dio: sono scomunicati“. Papa Francesco afferma che la condizione di peccato dei mafiosi è anche un delitto penale che comporta la scomunica, perché c’è l’idolatria, l’adorazione del male, del denaro che prende il posto dell’adorazione per il Signore. Il Papa coinvolge nello stesso atto di condanna sia la ’ndrangheta sia la mafia, la camorra, la sacra corona unita e altre forme di criminalità organizzata di stampo mafioso, come a voler dire che si tratta di piaghe che non conoscono cittadinanza.

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mons. Michele Pennisi: