Il filo rosso della cultura dello scarto lega la Giornata nazionale delle vittime dell’immigrazione alle altre ferite inferte alla sacralità della vita. Oggi si commemora l’ottavo anniversario del tragico naufragio del 3 ottobre 2013, nel quale morirono, a poche miglia dal porto di Lampedusa, 368 migranti. La cultura della morte si diffonde nella società, negando l’inviolabilità di quello che è il bene più prezioso dal concepimento fino al termine naturale dell’esistenza umana.
Negli anni ‘90 don Oreste Benzi – attualmente riconosciuto dalla Chiesa come Servo di Dio – con il megafono in mano, andava a pregare davanti agli ospedali in cui si praticava l’aborto, chiedendo alle madri di non uccidere i figli e ai medici di non dare la morte ai bambini. Il suo linguaggio scandalizzava perché le sue parole a molti suonavano troppo forti, eccessive, nel descrivere l’aborto come un omicidio. Era qualcosa che non si doveva dire. Tocca il cuore, quindi, sentire trent’anni dopo Papa Francesco difendere la vita dei nascituri con la stessa chiarezza e senza preoccuparsi delle critiche. Come quando, in un’udienza generale, disse: “La difesa della vita per la Chiesa non è un’ideologia, è una realtà, una realtà umana e coinvolge tutti i cristiani, perché cristiani, ma anche perché esseri umani. Gli attentati alla dignità e alla vita delle persone continuano purtroppo anche in questa nostra epoca, che è l’epoca dei diritti umani universali; anzi, ci troviamo di fronte a nuove minacce e a nuove schiavitù, e non sempre le legislazioni sono a tutela della vita umana più debole e vulnerabile”.
La mia mente ritorna in un lampo al terribile istante in cui si è deciso di porre fine all’esistenza di Eluana Englaro. Eravamo lì in preghiera di fronte all’abisso della civiltà negata. Nelle case famiglia della Comunità Papa Giovanni XXIII tanti bambini comunicano solo con gli occhi e con il respiro testimoniando il valore supremo della vita. Un insegnamento e un dono inestimabili per coloro che li assistono quotidianamente.
“Il tema della cura dei malati, nelle fasi critiche e terminali della vita – ha ribadito senza mezzi termini il Pontefice in un discorso all’assemblea plenaria della Congregazione della Dottrina della Fede – chiama in causa il compito della Chiesa di riscrivere la ‘grammatica’ del farsi carico e del prendersi cura della persona sofferente. L’esempio del Buon Samaritano insegna che è necessario convertire lo sguardo del cuore, perché molte volte chi guarda non vede. Perché? Perché manca la compassione. Senza la compassione, chi guarda non rimane implicato in ciò che osserva e passa oltre. Invece chi ha il cuore compassionevole viene toccato e coinvolto, si ferma e se ne prende cura”.
Allo stesso modo l’avere a cuore il prossimo deve interpellare le nostre coscienze lungo la rotta migratoria più pericolosa al mondo. In mare, come in una clinica, la missione di salvare gli innocenti purtroppo non sempre è percepita come la priorità assoluta. Francesco richiama l’attenzione sulle “vittime di una cultura dello scarto”. La depenalizzazione dell’aborto a San Marino e la prospettiva in Italia di un referendum sull’eutanasia non possono non suscitare inquietudine per la sconfitta dell’umano che trova espressione anche nell’indifferenza per la tragedia del migrante ignoto. Come in una nuova Rupe Tarpea si rimuove ciò che “non serve”.
Un numero incalcolabile di persone svanisce nei viaggi della speranza. Vite innocenti, ingannate dai mercanti di illusioni, inghiottite dagli abissi dei deserti, dei mari e di altre lande desolate. Sono neonati, bambini, mamme e ragazzi giovanissimi che attraversano le periferie geografiche ed esistenziali di un mondo indifferente e ostile. Sono gli invisibili di cui si perdono le tracce in viaggi rocamboleschi o nei luoghi di approdo che però divengono terra di nessuno, riserva di caccia della tratta di esseri umani e delle più inconfessabili pieghe oscure delle nostre società “avanzate”. Un bimbo non nato, un sofferente abbandonato all’eutanasia e una vittima della migrazione hanno in comune la stessa disumana deriva nichilista che li derubrica crudelmente quali “vuoti a perdere”.