Nell’antica Grecia era la tracotanza ad accecare chi scambiava la vana gloria per autentica responsabilità. Quando si spegne la luce della condivisione anche la politica diventa selvaggia rincorsa al mero tornaconto e alla sterile visibilità. Nei millenni, per far conoscere il volto di un governante occorreva effigiarlo sulle monete, oggi basta un’ora senza un feedback sui social per marcare un panico da vuoto comunicativo. Una sovraesposizione autolesionistica toglie autorevolezza e persino sacralità a qualunque potere, inflazionandone l’immagine e la parola. La caratura di un leader era sempre stata direttamente proporzionale ai suoi silenzi, alle sue ponderate riflessioni. Lincoln cambiò la storia del suo Paese con un discorso, Churchill vinse la guerra con due cartelle di appello radiofonico alla nazione.
Giovanni Paolo II contribuì alla caduta del muro di Berlino portando testimonianza invece di parole perché, come ama ripetere l’attuale Pontefice, San Francesco raccomandava ai suoi frati: “Predicate il Vangelo, se serve anche con le parole”. E poi non dimentichiamo che nostro Signore non lasciò scritto di suo pugno neppure un rigo, gli altri lo raccontarono citandolo, l’unica volta che lo videro scrivere qualcosa fu sulla sabbia senza che nessuno leggesse. E il quadro più famoso della storia universale, la Gioconda, ritrae un sorriso enigmatico al quale generazioni di uomini hanno cercato di attribuire un significato. Non tutto ciò che ha valore può essere espresso a parole. Verbalizzare la profondità equivale a negarne l’ineffabile mistero.
L’attuale overdose di parole ottiene l’effetto contrario a quello sperato. Tutti parlano, molti urlano, altri minacciano, pochi ascoltano, ancor meno riflettono. Quanti oggi sono sugli scudi rischiano per mancanza di umile lungimiranza di chiudere i canali di ascolto con il mondo reale e di confinarsi, come già altri prima di loro, in una logica da referendum. O con me o contro di me!
Ma governare sulle macerie non conviene a nessuno. La desolazione della campagna elettorale agli sgoccioli pone inquietanti interrogativi sulla qualità della rappresentanza democratica. Nella Tv degli esordi c’era il mai abbastanza rimpianto “indice di gradimento” che affiancava lo share. Oggi per strada gli umori sono più significativi dei sondaggi pre-elettorali e restituiscono un Paese esausto e incattivito nel quale certe inchieste e gli insulti tra avversari sono il riflesso malefico di uno scadimento del dibattito sempre più virtuale tra forze politiche prive di reale radicamento sociale.
Una politica sempre più astratta, autoreferenziale e lontana dai problemi quotidiani della gente tradisce la missione che ne fa, secondo la definizione di Paolo VI, la forma più alta di carità. La guerra di carta tra pro e contro il leader del momento fotografa una pericolosa deriva personalistica che avvicina l’Italia al Sud America piuttosto che all’Europa. Una ubriacatura che stordisce l’elettorato senza veramente coinvolgerlo ha preso il posto della pacata e costruttiva riflessione collettiva. Anche atteggiarsi, “intra et extra Ecclesia” nel dipingerla (la Chiesa) pronta a farsi tirare da una qualche parte, è altrettanto grottesco dell’incoerenza degli aspiranti statisti che sognano improbabili nuove alleanze tra “trono e altare”. Farebbero meglio – coloro che si professano cattolici – ad andare alla Messa, lontano dai selfie e ad urne chiuse, per ricordarsi che il potere è spirito di servizio altrimenti diventa il peggior veleno per l’anima.