Capo di una dinastia che mai come negli ultimi anni è sembrata ammaccata, Carlo III d’Inghilterra assurge al trono di un Paese che dire ammaccato è dire ben poco. Non illudano le telecamere e i lustrini: Unito quel Regno lo è sempre meno. Il nuovo sovrano Windsor deve prenderne atto, e fare qualcosa. Sarà il suo compito per i tempi a venire, come lo è stato per gli ultimi anni di Elisabetta. L’incoronazione a Westminster Abbey non rappresenta l’apoteosi di un impero ricco e stabile, ma il primo atto di un tentativo di ripartenza di uno Stato che si è reso piccolo, isolato, disarticolato. È per questo che Carlo, saggiamente, non solo e non tanto ha scelto di snellire liste di ospiti e cerimoniali pomposi, quanto di affidare a questi ultimi una serie di messaggi affidati ad altrettanti simboli. Non si tratta di un’apertura al ceto medio borghese e popolano, come la visita dell’altro giorno di William ad un pub storico del centro di Londra: questa è roba che hanno già sperimentato non senza successo le monarchie scandinave. Si tratta di rassicurare John Bull, l’inglese medio, che non tutto è andato, non tutto e perduto, non tutto è irrecuperabile. Ma per far questo, per riprendersi da un declino marcato dalla sciagurata decisione di uscire dall’Ue, occorre qualcosa di miracoloso.
Ecco quindi Carlo che tenta di trasformarsi in Re Taumaturgo, come furono i Merovingi e gli Angiò che in fondo sono suoi mezzi cugini. Ricevuto l’Olio Santo di Clodoveo – ce lo ricorda Marc Bloch in un libro giustamente famoso – questi ricevevano anche il dono di guarire nobili e popolani dalla scrofola. Carlo, per esercitare simili virtù terapeutiche verso i suoi Lord e verso i suoi hooligan, porta in processione le reliquie della Santa Croce. Gliele ha donate Papa Francesco, in un gesto dal sapore ecumenico le cui conseguenze vedremo e commenteremo con gli anni, perché le querce sono solide ma ci mettono sempre un po’ a crescere. Il capo della Chiesa Anglicana si getta alle spalle, una volta per tutte, la Congiura delle Polveri e, con analoghi segni di attenzione nei confronti delle altre religioni presenti nel regno, chiede a tutti di essere una sola cosa. Prima si era uniti nell’identificazione del buon suddito nella figura dell’Englishman, adesso il Briton è chiamato ad essere unito nella diversità. Il salto non è da poco: rappresenta la negazione palmare del sovranismo identitario che ha segnato e segna ancora la politica britannica. Anche qui, gli effetti li vedremo col tempo.
Il logo dell’incoronazione dice anch’esso parecchio: dalla Corona si scatena un germogliare di spighe fiori e foglie. Omaggio all’ambientalismo del monarca, è stato subito detto. Ma pure richiamo ineludibile alla Sacra Corona di Spine che, ai tempi dei Templari, germogliava miracolosamente ad ogni scoccare del Giovedì Santo.
Qui si capisce come Carlo si ponga nei confronti del suo popolo, della sua nazione, del suo regno che traballa più di quanto non dia a vedere. Come taumaturgo, cioè, in una nuova dimensione quasi sacrale della Monarchia. La quale – anche qui una vittoria di noialtri europei del Continente, per secoli guardati con alterigia – fa propri modelli e simboli da tempo da noi dismessi, pur di ricreare quel tessuto connettivo sociale e culturale che permetterà, si spera, al Regno Unito di superare i marosi della modernità.
Il successo finale non giungerà domani, se mai giungerà. Intanto William spilla birra nel pub che vide sedersi ai suoi tavolini quel laburista amante della Repubblica (spagnola) di George Orwell, mentre Harry resta poche ore, lo stretto necessario, prima di tornare in una California dove lui non è né carne, né pesce. Figura quasi tragica, la sua: la Storia è piena di figli minori incompresi. Anche i Plantageneti ebbero i loro e per l’Inghilterra questa fu vera iattura. Ai due, primo e sesto in linea di successione, Carlo sta indicando una strada, che è ben diversa dal farsi popolano come dal farsi starletta televisiva. Pare dire ai due orfani di Diana che il Regno è ancora grande, ma per mantenerlo tale non basta la tradizione, se mai è bastata.
Ci vuole una guarigione ormai dal sapore miracoloso, ché la scrofola sta andando in cancrena. Ci vuole un Trono che sia concreta manifestazione dell’identità nazionale, qualcosa di simile diremmo noi ad un Presidente della Repubblica italiano: di certo non più una corte staccata dal Paese, interlocutrice di un modo ristretto che sembra uscito da “Quattro matrimoni e un funerale”. Questo è, piuttosto, il mondo etoniano di Boris Johnson, la cui inadeguatezza è divenuta evidente negli ultimi tempi. Purtroppo per tutti, se ne sono accorti quando era troppo tardi.