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Il mistero delle tutele crescenti

La rivoluzione di Renzi e del suo jobs act ha riempito le pagine dei giornali. Fiumi d’inchiostro per parlare di riduzione del costo energia elettrica, diminuzione delle tasse, abbassamento fiscale sul reddito da lavoro, agenda digitale, eliminazione dell’obbligo di iscrizione alle Camere di Commercio, licenziamento dei dirigenti pubblici. La parola che più ha tenuto banco è l’ormai famoso “articolo 18”, per il quale i sindacati sono scesi in piazza. Chi verrà assunto a tempo indeterminato in un’azienda con più di 16 lavoratori non avrà più le garanzie finora previste dal cuore dello Statuto dei lavoratori. I decreti pubblicati sono due: disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti e norme per il riordino della disciplina in materia di ammortizzatori sociali in caso di disoccupazione involontaria.

In questo bailamme di informazioni si è capita una cosa: sarà più facile licenziare. Il messaggio è arrivato forte e chiaro, accompagnato però da una dicitura un po’ misteriosa, che definisce il nuovo mercato del lavoro basandolo sui cosiddetti contratti a tutele crescenti. Ma cosa sono? Che vuol dire?

Un mistero per la maggior parte degli italiani, che pur avendo percepito l’obiettivo immediato per le aziende – già esplicitato prima – faticano a capirne il senso futuro per i lavoratori. In poche parole, nel periodo iniziale dopo l’assunzione a tempo indeterminato l’imprenditore ha più facoltà di interrompere il rapporto; in seguito, più passano gli anni meno è facile risolvere il rapporto di lavoro. Il dipendente dunque non è più tutelato come prima in maniera assoluta, ma acquisisce garanzie anno dopo anno, ed ecco spiegato il significato delle “tutele crescenti”.

Di positivo c’è che con questo metodo in pratica si aboliscono oltre 40 tipologie contrattuali, lasciandole in favore di una singola contrattazione a tempo indeterminato. Di negativo c’è che così facendo però, la sostanza della parola “indeterminato” che fino a oggi in Italia è stata sinonimo di “futuro”, perde di forza: che tutela c’è ad avere un contratto di quel tipo se dopo un tot di mesi il datore di lavoro ti può mandare via senza problemi? Diciamo che, al di là dei termini usati, il precariato, che tanti danni ha fatto fino a oggi, in questo modo blinda il proprio domani, avendo qualunque azienda circa 4 anni di tempo per mandare via chiunque senza dover essere costretta a reintegrare nessuno.

Si dirà: ma in questo mondo dove qualunque attività fatica persino a restare in piedi, di fatto le garanzie di un rapporto a tempo indeterminato già non esistono più. Di fatto, appunto, non di diritto. E non è un caso che la parola appena usata abbia un doppio significato, l’uno pubblico e l’altro personale. Senza diritti si rischia di restare alla mercé del più forte, che di sicuro non è il lavoratore.

Intendiamoci: non è che l’idea di muovere lo stagno nel quale annaspa il mercato del lavoro italiano sia sbagliata. Solo che sembra sincrona rispetto alla realtà; meno tutele e più possibilità di lavoro potrebbe anche essere un’equazione vincente. Ma l’Italia non è l’Inghilterra, e se esci fuori dal processo produttivo nella maggior parte dei casi sei destinato ai margini della società. Già oggi viviamo l’era dei nuovi poveri; se non cambieranno anche le regole del mercato, oltre ai contratti, vi si aggiungeranno anche i nuovi precari. Speriamo solo che l’assegno universale per chi perde il posto di lavoro, previsto anche per chi fino a ieri non ne aveva diritto, con l’obbligo di seguire un corso di formazione professionale e di non rifiutare più di una nuova proposta di impiego, non sia l’ultima spiaggia dove sbarcare per un esercito di “indeterminati”.

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