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Il lamento della pace

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Foto di Tamara Menzi su Unsplash

Rileggo ogni tanto un libro di Erasmo da Rotterdam intitolato “Il lamento della pace”. Una pietra miliare nella storia del pacifismo europeo. Testo decisivo per il pacifismo contemporaneo, il Lamento della Pace (1517) fu scritto nel contesto di un’Europa insanguinata da violenti conflitti armati tra gli Stati, ma, come si legge nella presentazione italiana dell’opera, divenne ben presto un vero e proprio manifesto etico-politico. Secondo il filosofo e letterato l’uomo potrà raggiungere una pace autentica e completa soltanto se mediterà e praticherà l’amore nei confronti del Creatore e di ogni creatura. Con vigore espressivo e nobiltà di pensiero non comuni, Erasmo parla anche al nostro tempo confuso e dilaniato da troppe guerre assurde: esule e violata forse come non mai, la sua Pace personificata continua a invocare una fratellanza universale che l’uomo postmoderno non pare tuttavia ancora in grado di vivere. L’autore naturalmente ha una sua visione molto personale che si riferisce a una situazione particolare. Se ne possono, però, trarre riflessioni di carattere generale. E cioè che la pace non si trova quasi mai nei luoghi in cui è maggiormente invocata.

Proprio dove il desiderio di pace è più evocato e testimoniato, lì la pace spesso è cercata invano. Di fronte a questo pensiero mi sono domandato: dove abita la pace? Chi la sposa? Di cosa ha bisogno la pace per essere trovata e vissuta. Ciò mi suscita anche paragone un po’ bizzarro: la pace è come una bella donna che tutti desiderano ma nessuno prende in sposa perché è esigente, ha bisogno di essere sorretta e sostenuta. In fondo l’umanità è da sempre dentro questa situazione. La “non pace”, ovvero la condizione di guerra, è costantemente stata al centro degli interessi dei popoli e degli individui. La pace è considerata una gran bella cosa ma impegna e l’umanità rifugge dell’impegno e guarda alla soddisfazione immediata, al piacere, al guadagno, a quello che si pensa faccia stare bene. La malefica arte della “non pace”, della guerra, della ribellione, dell’odio è un’attitudine che non siamo in grado di allontanare. Sembra impossibile disfarsene. Per farlo occorre tornare a un’etica della spiritualità, al coraggio di una spiritualità di stampo biblico.

La pace è frutto di giustizia, misericordia, rettitudine di vita. Ossia di una consapevolezza matura che riponga la felicità nella pace interiore. Per essere in pace occorre individuare la felicità in ciò che veramente riempie il cuore senza creare danno a nessuno. Solo tornado alla fede della misericordia e della giustizia l’umanità può fare passi verso la riscoperta di sé stessa. Oggi invece si è persa l’identità e non si ricerca in noi stessi e nel prossimo la pace che Dio genera nei cuori. All’origine di ogni guerra c’è la tentazione di trovare gratificazione nell’interesse egoistico che non guarda al male procurato alla vittima, all’abbattuto, al sopraffatto dalla violenza. Chi paga il conto della “non pace” è sempre la parte più fragile della popolazione. Al cuore inquinato dalla logica della guerra non importa chi muore e perde tutto. Coloro che si arricchiscono producendo e vendendo armi sono abitati da un antico disordine interiore.

Sarebbe utile a tutti riprendere in mano il Libro della Genesi. In quelle poche pagine è racchiusa e prefigurata tutta la storia umana. Il dramma dell’umanità è voler soppiantare Dio per mettersi al Suo posto. Dobbiamo tornare, perciò, a una fede biblica che ci conduca a comprendere e correggere noi stessi. Dio ci invita a costruire la nostra vita all’interno di una storia di fraternità. Oggi abbiamo orizzontalizzato tutto. Nel tempo abbiamo eliminato ogni verticalità della vita. Se riscopriamo la dimensione soprannaturale e la incrociamo con la fatica del mondo allora le cose cambieranno.

card. Edoardo Menichelli: