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Il discepolo che ha paura non può essere colui che testimonia il regno di Dio

All’inizio del capitolo 10 di Matteo, Gesù aveva chiamato i dodici e li aveva inviati ad annunciare il regno di Dio dando così le sue linee programmatiche fondamentali. Poi Gesù mette in guardia i suoi discepoli dai pericoli che verrà loro dalla missione, gli uomini, i tribunali e perfino i parenti invitandoli alla perseveranza. Ora si affronta il problema più delicato e sottile: la paura. Le difficoltà della missione non sorgono solo dall’esterno, dagli uomini, dai parenti e dalla cattiva reputazione del maestro ma possono sorgere dal di dentro. Nascono dalla nostra fragilità e debolezza da ciò di cui abbiamo paura. Allora Gesù si preoccupa di sostenere i suoi discepoli invitandoli a non avere paura. Se vogliamo essere più precisi in realtà abbiamo raccomandazioni tra loro opposte:

Non li temete v26

Non abbiate paura v28

Non abbiate timore v31

Siamo di fronte alla chiave di lettura di questo brano. Ci sono due tipi di paura. Da una parte la paura fonte del peccato e dell’altra la paura fonte di salvezza. Anche nella nostra tradizione teologica abbiamo a che fare con questa distinzione. Uno dei doni dello Spirito Santo è il Timor di Dio.

Non volendo affatto banalizzare la bellezza e la complessità di questo brano, credo che l’intento di Gesù sia proprio questo: mettere il discepolo (e quindi ciascuno di noi) di fronte alle due paure. Queste due paure riguardano fondamentalmente lo status di discepolo. Il discepolo che ha paura non può essere colui che testimonia il regno di Dio secondo il mandato divino di annunciarlo dai tetti. E cioè annunciare dai tetti una realtà che ha conosciuto nel rapporto intimo con il suo maestro. Detto nel segreto, al buio e sussurrato all’orecchio, deve essere svelato nella luce e dai tetti.

La minaccia più grave della missione e dell’identità del discepolo è la paura di preoccuparsi di cose superficiali, inutili e forse frivole. Ma purtroppo spesso è così. Quanto del nostro tempo impieghiamo nella cura del corpo, della salute, del successo, del potere? Quanta paura abbiamo quando rincorriamo la carriera e tutte le posizioni e le condizioni di una vita apparentemente sicura? Quanti sforzi facciamo nell’intento di migliorare la nostra esistenza per paura della malattia, dell’insuccesso della morte? Tutto questo mette il potere in mano a colui che ha il potere di uccidere l’anima.

Al contrario, il timore di Dio ci mette nella condizione di rimettere la nostra vita in relazione con Dio. Anzi ci mette in relazione con il Dio della grande attenzione nei riguardi di ciascuno di noi. Dio ha riguardo anche per il più insignificante degli esseri, il passero, e noi valiamo più di molti passeri. Fu così anche all’origine. L’uomo che si imbatte nel serpente, entra in contatto con la sua intima paura di non essere come Dio, si mette al suo posto e perde quella che è la sua relazione fondamentale con Dio.

Gesù non vuole questo per i suoi discepoli: li vuole liberi e non schiavi. La paura ci fa schiavi, mentre la capacità di testimoniare con coraggio la nostra relazione con Dio ci fa liberi. La nostra relazione con Dio testimoniata con parresia, là dove occorra, ci fa discepoli degni del maestro che non ci rinnegherà mai davanti a Padre.

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