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I segni di malessere cronico che presenta l’economia italiana

L’Italia è un Paese in cui il dibattito politico è spesso caratterizzato da una conflittualità esasperata, che trascende il normale confronto democratico e si traduce in una paralisi decisionale. Governi e opposizioni sembrano più interessati a contrastarsi reciprocamente che a costruire un’agenda basata sulla sostenibilità delle decisioni. Questo atteggiamento danneggia non solo l’efficacia dell’azione di governo, ma anche la credibilità delle istituzioni democratiche.

Le democrazie liberali funzionano quando chi governa agisce con responsabilità e chi si oppone lo fa proponendo alternative concrete. Se invece la politica si riduce a una perenne contrapposizione ideologica, il Paese perde la capacità di affrontare le sfide strutturali che richiedono soluzioni di lungo periodo. Questa dinamica è particolarmente dannosa in un contesto come quello italiano, dove le criticità economiche e sociali richiederebbero un maggiore senso di responsabilità da parte della classe dirigente.

L’economia italiana presenta segni di malessere ormai cronici. La crescita del PIL è tra le più basse d’Europa: secondo i dati dell’ISTAT, nel 2023 l’Italia ha registrato una crescita inferiore all’1%, mentre Francia e Germania hanno avuto performance migliori, pur in un contesto generale difficile. Il debito pubblico rimane sopra il 140% del PIL, limitando fortemente le possibilità di spesa pubblica e rendendo il paese vulnerabile alle turbolenze finanziarie internazionali.

A tutto questo si aggiunge la fragilità del mercato del lavoro. Il tasso di disoccupazione giovanile supera ancora il 20%, e il fenomeno della “fuga dei cervelli” impoverisce il tessuto produttivo nazionale. Molti giovani laureati scelgono di trasferirsi all’estero per trovare opportunità migliori, mentre le imprese lamentano la difficoltà di reperire manodopera qualificata.

Due dei settori più vitali per il benessere di un paese, scuola e sanità, attraversano un momento di forte difficoltà. La spesa pubblica in istruzione in Italia è inferiore alla media europea: circa il 4% del PIL contro il 5% di paesi come Francia e Germania. Il risultato è un sistema scolastico con strutture spesso inadeguate, stipendi degli insegnanti tra i più bassi d’Europa e un’offerta formativa che fatica a stare al passo con le esigenze del mercato del lavoro.

Anche la sanità è in sofferenza. La carenza di medici e infermieri, i lunghi tempi di attesa per visite ed esami diagnostici e la crescente spesa privata per la salute indicano una situazione preoccupante. Il Servizio Sanitario Nazionale, un tempo considerato un modello, è oggi segnato da forti disuguaglianze tra Nord e Sud e da una riduzione delle risorse disponibili.

Un altro fattore che limita la competitività del paese è il ritardo nell’innovazione tecnologica. Nonostante alcune eccellenze nel settore manifatturiero e nella ricerca, l’Italia investe meno di altri paesi in ricerca e sviluppo (circa l’1,5% del PIL, contro il 3% della Germania). Questo frena la transizione digitale e limita la capacità delle imprese di competere su scala globale.

Anche l’intelligenza artificiale, l’automazione industriale e le energie rinnovabili sono ambiti in cui l’Italia fatica a tenere il passo. Senza una chiara strategia per incentivare l’innovazione, il paese rischia di perdere ulteriormente terreno rispetto ai principali concorrenti europei e mondiali.

Se la politica non riesce a uscire dalla logica dello scontro permanente, diventa fondamentale il ruolo dell’opinione pubblica. Senza una pressione costante da parte della società civile, difficilmente le istituzioni cambieranno il loro approccio. È necessario un impegno collettivo per chiedere maggiore responsabilità ai partiti, affinché il dibattito politico torni a concentrarsi sulle reali esigenze del paese e non solo sulla ricerca del consenso immediato. Senza un cambiamento di prospettiva, il Paese rischia di restare intrappolato in una spirale di instabilità e declino.

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